di Augusto Cerri

Non è il caso di ricordare i diversi approcci della dottrina nel distinguere libertà personale e libertà di circolazione.

La Corte costituzionale, come è noto, dà una definizione complessa di libertà personale, per cui questa viene incisa attraverso misure coercitive o che, comunque, toccano la dignità sociale della persona. Con ciò recepisce sia la tesi classica che muove dalla tradizione dell’istituto e dallo stesso habeas corpus (che di questa tradizione, del resto, fa parte a pieno titolo) sia tesi più recenti per cui questa libertà si distingue da altre, come, ad es., la libertà di circolazione, per la inerenza a materie lato sensu penalistiche.

È appena il caso di ricordare, del resto, come la libertà personale e di circolazione fossero garantite nella Magna Charta in stretta consecutio (art. 39 e 40), pur palesando natura profondamente diversa. La garanzia della libertà personale nasce sul terreno penalistico (nessuno può essere catturato o imprigionato o subire torture/mutilazione [infringatur], se non per legge e attraverso un legale giudizio: sembra, per certi aspetti, l’art., 13 della nostra Costituzione, una volta escluse la tortura o le mutilazioni); la libertà di circolazione nasce sul terreno commerciale, per cui chiunque può entrare ed uscire dal Regno in libertà e in sicurezza [libere et secure]. Sfuggiva, forse, alla Magna Charta il profilo della tutela della salute che, invece, è presente (in prima fila) nel nostro art. 16 Cost., ma, all’epoca, le conoscenze sul tema erano abbastanza approssimative, pur se le epidemie erano disastrose (ma territorialmente delimitabili).

E dalla definizione della Corte dobbiamo muovere. Non sottilizzerei sul problema se le misure sul coronavirus possano o non sottintendere una coercizione, almeno in quanto siano penalmente sanzionate. Si entrerebbe in una materia, sotto questo profilo, controversa, anche se accennerò, sotto altro profilo, al sanzionamento penale. Certo è che le misure sul coronavirus non toccano la dignità della persona, non sottintendono una valutazione negativa di chi vi è sottoposto. Chi vi è sottoposto viene isolato non per sue colpe, né per il suo carattere o temperamento pericoloso, ma solo per le dinamiche di un contagio di cui non reca alcuna responsabilità.

Certo è che queste misure sono state oltremodo invasive e pervasive. I Padri Costituenti, nello scrivere l’art. 16 Cost., pensavano, senza dubbio, anche ai “cordoni sanitari”, idonei ad isolare parti del territorio della Repubblica da altre, ma non pensavano ad una “pandemia” che pervadesse l’intera Repubblica. Forse la “globalizzazione” reca con sé alcuni vantaggi, ma reca anche danni, di cui questo è un esempio. Le misure sono state di estrema severità fino quasi a configurare una generalizzata “detenzione domiciliare” sui generis.

Le misure sono prese, per lo più, con atto del Presidente del Consiglio dei ministri, in base all’art. 3 del D. l. n. 6 del 2020. Il decreto-legge, cioè, fonda un potere di ordinanza che è stato ripetutamente esercitato. Può un’ordinanza incidere, come nel caso, su libertà costituzionali? La Corte lo ha ammesso fin dall’inizio del suo magistero, con riguardo, ad es., al famoso art. 2 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che incide su non poche libertà costituzionali a cominciare da quella di riunione, parente stretta della libertà di circolazione (in dottrina si è sottolineata la libertà di corteo, che è una riunione itinerante, che circola). Ricordo la “storica sentenza interpretativa di rigetto” n. 8 del 1956 e poi la sentenza n. 26 del 1961, “interpretativa di accoglimento”. Si chiarì, allora, che ciò era possibile nei limiti dei principi dell’ordinamento, del principio di legalità, della temporaneità degli atti e purché non sussistesse, come per la libertà personale, una “riserva assoluta di legge o di giurisdizione”.

In seguito, questa giurisprudenza non è stata mai contraddetta ma sempre confermata (cfr., ad es., sentenza n. 115 del 2011).

Ecco, allora, che le critiche a quanto sta avvenendo dovrebbero essere ridimensionate. Certo, la materia della tutela sanitaria è estremamente tecnica, ma non è priva, come quasi sempre avviene, di valutazioni politiche. Forse, la delega al Presidente del Consiglio dei ministri, ex art. 3, D.  l. n. 6 del 2020 è troppo ampia. Forse, allora, lo strumento più appropriato per esprimere queste valutazioni dovrebbe essere il decreto-legge, approvato dal Governo nella sua collegialità e sottoposto al vaglio del Parlamento. Tutto qui.

Resta da dire (e con ciò sciolgo una riserva fatta all’inizio di questa breve nota) che, accanto alle sanzioni amministrative è riemerso dalla polvere, per l’occasione, il reato di inosservanza di ordini legalmente dati per ragioni di giustizia o di sicurezza o di ordine pubblico o di igiene, di cui all’art. 650 c.p., “graziato” dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 168 del 1971. E qui mi premetterei alcune riserve. Lascio in disparte le diatribe teoriche sulle c. d. “norme penali in bianco” e, dunque, sulla tesi della “disobbedienza in quanto tale” o sulla tesi della “sufficiente determinazione”, che supera le aporie della precedente ma poi ne crea altre, trasformando una tradizionale riserva assoluta di legge, qual è quella sulla libertà personale, in una riserva relativa. È un sistema di concetti connessi gli uni con gli altri, per cui la modifica di uno comporta (come in un domino) modifiche ulteriori, su cui bisogna meditare. Lascio da parte tutto ciò perché non è la sede opportuna per farlo; né (confesso) lo ho fatto in altre sedi.

Mi permetterei, però, di diffidare di norme incriminatrici così ampie come l’art. 650 c. p. Una “buona” sanzione amministrativa è più che sufficiente per imporre il rispetto delle regole, non incide sulla dignità sociale della persona, non “entra in sistema” (ai fini della recidiva, ad es.) con le “vere” sanzioni penali, non sovraccarica di compiti i nostri Tribunali, già meritoriamente impegnati nel recupero di un “arretrato” ingente.