Nota a Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348

di avv. Paola Bevere

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348) sono state chiamate a risolvere il conflitto interpretativo sulla coltivazione domestica di sostanze stupefacenti.

  1. Il quesito

In particolare, il quesito era il seguente: “se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”.

A ben vedere la questione concerne il principio di offensività del delitto previsto dall’art. 73 DPR 309/1990[1] in relazione alla coltivazione ovvero all’uso personale della stessa ex art. 75 TUS[2].

Com’è noto, l’offesa al bene giuridico tutelato si definisce come la lesione o messa in pericolo dell’interesse protetto. La principale classificazione sul punto è fra reati di danno (ove l’offesa si sostanzia nella lesione al bene tutelato) e reati di pericolo (ove l’offesa è probabile); questi si suddividono a loro volta in reati di pericolo concreto (che è elemento della stessa fattispecie) e di pericolo astratto (o presunto).

Il principio di offensività nel nostro sistema penale è in primo luogo “offensività in astratto”, e si dispiega quale canone che dovrebbe orientare il legislatore nella selezione delle fattispecie incriminatrici; più precisamente, la offensività in astratto è precetto rivolto al legislatore, il quale deve redigere la norma incriminatrice in maniera tale che il suo tessuto letterale sia in grado di ricomprendere comportamenti umani offensivi di interessi meritevoli di tutela. In secondo luogo è “offensività in concreto”, vale a dire criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune; in particolare, il principio di offensività, su questo versante, regge l’interpretazione, poiché il giudice, dopo aver enucleato dalla norma e dal sistema il bene protetto, può sanzionare solo il comportamento che, concretamente, si sia posto in attrito con tale bene, secondo la logica del danno o – in funzione di una tutela anticipatoria – secondo la logica della messa in pericolo dell’interesse protetto[3].

In materia di stupefacenti, i beni giuridici tutelati – in base all’interpretazione giurisprudenziale – sono sia l’ordine pubblico e sicurezza (rispetto alle organizzazioni criminali che delinquono in tale mercato) che il diritto alla salute (ex art. 32 Cost.). Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, la disciplina penale in materia di droghe mira alla «tutela sia della salute pubblica… sia – con non minore rilievo – della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico… negativamente incisi vuoi dalle pulsioni criminogene indotte dalla tossicodipendenza… vuoi dal prosperare intorno a tale fenomeno della criminalità organizzata», nonché alla tutela «delle giovani generazioni»[4].

Parte della dottrina, invero, ha ritenuto impropria questa classificazione, ritenendo oggetto di tutela solo il diritto alla salute in quanto bene giuridico tutelato costituzionalmente, contro i più vaghi concetti di ordine pubblico e sicurezza[5].

Le Sezioni Unite, in via preliminare, riepilogano sul punto la giurisprudenza della Corte Costituzionale.

  1. La Corte costituzionale

Il Giudice delle leggi con la sentenza n. 109 del 20 maggio 2016, ha ricordato che “La disposizione in esame rappresenta il momento saliente di emersione della strategia – cui si ispira la normativa italiana in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope a partire dalla legge 22 dicembre 1975, n. 685 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – volta a differenziare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore della droga da quelle del produttore e del trafficante. L’idea di fondo del legislatore è che l’intervento repressivo debba rivolgersi precipuamente nei confronti dei secondi, dovendosi scorgere, di norma, nella   figura   del tossicodipendente   o   del   tossicofilo   una   manifestazione   di disadattamento sociale, cui far fronte, se del caso, con interventi di tipo terapeutico e riabilitativo.   In questa prospettiva – esclusa la rilevanza dell’assunzione dello stupefacente in se’ – il legislatore ha ritenuto di dover, altresì, sottrarre talune condotte ad essa propedeutiche alla sfera applicativa delle norme incriminatrici di settore, facendole oggetto di distinta considerazione normativa, variamente articolata nel corso del tempo. La relativa disciplina riflette chiaramente, peraltro, anche la preoccupazione di evitare che la strategia considerata si traduca in un fattore agevolativo della diffusione della droga tra la popolazione: fenomeno che – in assonanza con   le   indicazioni provenienti dalla normativa sovranazionale – è ritenuto meritevole di fermo contrasto a salvaguardia tanto della salute pubblica, «sempre piu’ compromessa da tale diffusione», quanto della sicurezza e dell’ordine pubblico, «negativamente incisi vuoi dalle pulsioni criminogene indotte dalla tossicodipendenza […] vuoi dal prosperare intorno a tale fenomeno della criminalita’ organizzata […], nonché a fini di tutela delle giovani generazioni» (sentenza n. 333 del1991). Di qui, dunque, la previsione di condizioni e limiti di operatività del regime differenziato.    Questo fa perno, in concreto, su un dato inerente all’intenzione dell’agente: la finalità di «uso personale»   della   sostanza.

Tra le condotte ammesse a fruire del trattamento di minor rigore non risulta, dunque, inclusa – ne’ mai lo e’ stata – la coltivazione non autorizzata di piante dalle quali possono estrarsi sostanze stupefacenti (quale la cannabis): attivita’ che figura, per converso, in testa all’elenco dei comportamenti penalmente repressi dalla norma chiave del sistema – l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 – e la cui equiparazione quoad poenam alla fabbricazione illecita della droga è ribadita, altresì, dall’art. 28, comma 1, del medesimo decreto.    Pronunciando su questione concernente la norma incriminatrice di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, questa Corte ha escluso, altresì, che la sottoposizione   a   pena   della   coltivazione, indipendentemente dalla destinazione del prodotto, collidesse con il principio di necessaria offensività del reato. Si è, infatti, osservato che la fattispecie criminosa considerata, nella   sua configurazione astratta, poggiava su una presunzione di pericolo non irragionevole, inerendo a condotta «idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga»: e ciò tanto più a fronte della rilevata attitudine dell’attivita’ produttiva ad incrementare in modo indefinito i quantitativi coltivabili. Quanto, poi, all’offensività della singola condotta in concreto accertata, la sua eventuale carenza non radicava alcuna questione di costituzionalità, ma implicava «soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario», all’esito del quale la punibilità poteva essere esclusa (sentenza n. 360 del 1995).

Come gia’ rilevato, tuttavia, dalle sezioni unite della Corte di cassazione nelle citate sentenze del 2008, in replica ad analogo argomento, la censura poggia su una premessa inesatta: ossia, che la detenzione per uso personale dello stupefacente “autoprodotto” renda non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale “assorbito” dal successivo illecito amministrativo.    In realta’, tale assorbimento non si verifica affatto: a rimanere “assorbito”, semmai, e’ l’illecito amministrativo, dato che la disponibilita’ del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, ossia la “raccolta” del coltivato (o puo’ essere, comunque, considerata un post factum non punibile, in quanto ordinario sviluppo della condotta penalmente rilevante).

   In questa prospettiva, la disparità di trattamento denunciata non sussiste: il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente “raccolto” e il coltivatore “in atto”   rispondono entrambi penalmente”.

La questione di illegittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 venne quindi dichiarata non fondata.

  1. Gli orientamenti contrapposti

3.1 Il primo indirizzo giurisprudenziale

Per quanto concerne invece la giurisprudenza di legittimità, le Sezioni Unite ripercorrono i due orientamenti contrapposti. “Il primo degli indirizzi in questione ritiene irrilevante la verifica dell’efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture con riferimento all’atto dell’accertamento della polizia giudiziaria e si incentra sull’attitudine della pianta, conforme al tipo botanico vietato, anche in relazione alle modalità che connotano la coltivazione, a giungere a maturazione e produrre, all’esito di un fisiologico sviluppo, sostanze ad effetto stupefacente o psicotropo, sulla base, dunque, di un giudizio predittivo”.

La Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2004/757/GAI del 25 ottobre 2004, nel dettare norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, aveva indicato anche la coltivazione della cannabis tra le condotte per le quali i singoli Stati devono applicare sanzioni penali.

Diversamente, si perverrebbe all’irrazionale conclusione di escludere la rilevanza penale di una coltivazione anche di notevoli dimensioni, con elevato numero di piante messe a dimora, per il solo fatto che ne sia stata accertata l’esistenza all’inizio del processo di maturazione e che, esclusivamente per tale circostanza fattuale, la stessa sia risultata non produttiva, nell’immediato, di principio attivo.

Secondo tale orientamento l’offensività risulta assicurata:

  1. in astratto, dalla proiezione causale tipica della condotta incriminata (correlata all’identificazione della specie vegetale ed alla sua corrispondenza al tipo vietato);
  2. in concreto, dalla verifica giudiziale della capacità della condotta che, per le caratteristiche assunte nei singoli casi (avuto riguardo alla qualità delle piante, al loro numero e agli altri elementi rilevanti), deve apparire tale da incrementare significativamente il rischio della produzione di sostanze utili al consumo.

Ciò posto, se, a fronte di un ciclo vegetale già esaurito, il processo di verifica va condotto ex post, sicché la rilevanza della condotta potrà essere esclusa quando si riscontri l’assenza di efficacia stupefacente del prodotto – in consonanza con l’insegnamento delle Sezioni Unite Di Salvia – per le ipotesi di vegetali in crescita rileverà, invece, l’attitudine a produrre sostanze utili per il consumo.

3.2 Il secondo indirizzo giurisprudenziale

L’opposto orientamento afferma che l’accertamento dell’offensività deve investire l’estensione ed il livello di strutturazione della coltivazione, a prescindere dalla quantità di principio attivo (giungendo, così, a ravvisare la sussistenza del reato con riferimento ad un caso di coltivazione di 43 piantine di cannabis, che all’atto del sequestro evidenziavano – ad eccezione di una sola – un contenuto di sostanza ricavabile inferiore sia al valore di una dose singola che alla dose soglia; e ciò sulla considerazione che nella piantagione erano presenti semi ed impianti di innaffiamento e riscaldamento dei locali, finalizzati a favorire la crescita e lo sviluppo significativo delle piantumazioni).

Ancora, la sentenza Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, Pezzato, Rv. 265641, relativa alla coltivazione di due piante di canapa indiana e alla detenzione in essiccatore di foglie della medesima specie vegetale, giunge a riscontrare la carenza di offensività in concreto nell’inverosimiglianza di un pericolo di diffusione sul mercato, per la quantità assolutamente “minima” di prodotto, resa disponibile dalla limitatezza della fonte di produzione, in relazione al bassissimo costo a cui quel tipo di sostanza è reperibile sul mercato, nonostante il raggiungimento della soglia drogante. In tale contesto, la Corte precisa che il canone ermeneutico dell’offensività deve ritenersi valido, pur all’esito della introduzione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen., per effetto del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, non avendo i due istituti spazi di interferenza applicativa. La causa di non punibilità, inserita nell’ambito delle determinazioni che il giudice assume in relazione alla pena, presuppone – oltre ad une serie di requisiti di natura soggettiva riassumibili nella non abitualità della condotta – un reato perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi (come è dato evincere dalle conseguenze che la pronuncia di proscioglimento per particolare tenuità del fatto proietta nei giudizi civili ed amministrativi per le restituzioni ed il risarcimento del danno), ma immeritevole di pena, e dunque postula che la condotta sia pur sempre connotata da offensività, ancorché esigua; al contrario, la mancanza di offensività colloca la condotta al di fuori dell’area della tipicità penale, rendendo il reato di fatto impossibile.

 

  1. Le conclusioni delle Sezioni Unite

Secondo le S.U. in commento la coltivazione non può essere ritenuta una sottospecie della detenzione, come tale punibile solo in quanto vi sia stata effettiva produzione di sostanza dotata di efficacia drogante, perché una tale interpretazione (fatta propria, tra le altre, dalla citata sentenza Sez. 6, n. 17983 del 2007, Notaro), oltre a scontrarsi con il tenore letterale di una pluralità di disposizioni normative, si pone in rotta di collisione con la chiara scelta del legislatore di punire ogni forma di produzione di stupefacenti, se necessario, anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute.

In base a ciò la nozione giuridica di coltivazione deve, però, essere circoscritta, per dare spazio alla distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica” e non può essere, in particolare, condivisa, sul punto, l’affermazione (contenuta, ad esempio, nella richiamata sentenza n. 17983 del 2007), secondo cui la coltivazione domestica è riconducibile alla nozione di detenzione, la quale è penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale.

In tal senso, la stessa sentenza Di Salvia, nel sottolineare la distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, afferma che la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti, ma tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l’intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti. Si tratta, però, di un parametro che, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi – in parte già individuati dalla giurisprudenza (ex plurimis, Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427; Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998; Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170 e Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168) – che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.

A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché – come appena visto – la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l’uso personale.

Le Sezioni Unite, pertanto concludono come di seguito riportato.

Venendo al versante dell’offensività dell’attività di coltivazione, vanno ribadite e rafforzate le conclusioni cui è giunta la più volte richiamata sentenza Di Salvia, riprendendo affermazioni della Corte costituzionale. Ritengono, infatti, le Sezioni Unite che l’esclusione della punibilità delle attività di coltivazione domestica, che opera sul piano della tipicità, renda a fortiori condivisibili le considerazioni svolte dalla giurisprudenza maggioritaria circa la più spiccata pericolosità della coltivazione rispetto alla maggior parte delle altre condotte elencate nell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 – ovvero, quelle diverse dalla fabbricazione e dalla produzione – perché l’attività di coltivazione è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili. E ciò, a tacere del fatto che, a differenza delle altre condotte “produttive”, l’attività colturale ha la peculiarità di non richiedere neppure la disponibilità di “materie prime” soggette a rigido controllo, ma normalmente solo di semi (C. cost., n. 109 del 2016). …omissis…

La riconosciuta anticipazione di tutela consente anche di risolvere la questione se l’oggettività giuridica del reato debba essere individuata solo nella salute individuale o collettiva (come in Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371) o anche: nella sicurezza, nell’ordine pubblico, nella salvaguardia delle giovani generazioni (come nelle sentenze Sez. U., Di Salvia e Krenni), nell’impedimento dell’incremento del mercato degli stupefacenti (come nella ricostruzione operata nell’ordinanza di rimessione). L’utilizzazione dello schema del reato di pericolo presunto rende superfluo, infatti, il richiamo a concetti come la sicurezza, l’ordine pubblico o il mercato clandestino, che, con riferimento alla fattispecie in esame, appaiono declinati in forma eccessivamente generica perché privi di un collegamento sufficientemente diretto con quello della salute, il quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell’art. 32, che lo qualifica addirittura come diritto soggettivo. Del pari, nessuna autonomia semantica può essere riconosciuta alla “salvaguardia delle giovani generazioni”; locuzione che, per evitare impropri sconfinamenti nel terreno dell’etica, deve intendersi ricompresa nel più generale concetto di salute, non potendo che essere interpretata come “salvaguardia della salute delle giovani generazioni”. Al fine di individuare l’oggetto giuridico della tutela, è sufficiente, dunque, riferirsi alla salute, individuale e collettiva, proprio perché la particolare pregnanza di tale valore costituzionale consente che la sua protezione sia anticipata ad un momento precedente a quello dell’effettiva lesione”.

Con tale pronuncia, quindi, è stato anche risolto il tema del bene giuridico tutelato dalla normativa in tema di stupefacenti, il quale è quindi solo il diritto soggettivo alla salute (ex art. 32 Cost.).

Paradossalmente la coltivazione domestica, di minime dimensioni, ha proprio l’effetto di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza, sottraendo il consumatore dal mercato illecito di sostanze stupefacenti; il quale, come noto, non ha alcun interesse per la salute dei concittadini, ma solo per quello economico.

Ancora, la Corte asserisce, in tema di offensività, che: “La ricostruzione sistematica del reato di coltivazione di stupefacenti, in termini di pericolo presunto, trova adeguato temperamento nella valorizzazione dell’offensività “in concreto”, quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale è tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato. Ne consegue che il reato non potrà essere ritenuto sussistente qualora si verifichi ex post che la coltivazione ha effettivamente prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Dunque, la verifica dell’offensività in concreto deve essere diversificata a seconda del grado di sviluppo della coltivazione al momento dell’accertamento, nel senso che, qualora il ciclo delle piante sia completato, l’accertamento dovrà avere per oggetto l’esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre effetto drogante.

In conclusione, potranno rilevare, al fine di escludere la punibilità: a) un’attuale inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale; b) un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all’uso quale droga (Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732).

Questa soluzione – lo si ribadisce – ha il duplice merito di rispettare l’autonomia concettuale della coltivazione rispetto alla detenzione (nel senso che può ontologicamente aversi coltivazione senza detenzione, cioè senza produzione in atto di sostanza stupefacente), e di venire incontro all’esigenza, che appartiene alla sfera della logica ancor prima che a quella della politica criminale, di evitare che l’effettiva sussistenza del reato dipenda dal dato, puramente contingente, rappresentato dal momento dell’accertamento. Diversamente opinando, del resto, potrebbero essere ritenute penalmente irrilevanti coltivazioni industriali, anche di larghe dimensioni e potenzialmente molto produttive, per il solo fatto di trovarsi in un arretrato stadio di sviluppo (come ben evidenziato nella citata sentenza Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Cola martino).

In tal senso, occorre richiamare la pronuncia, sempre a Sezioni Unite, n. 30475 del 30 maggio 2019 in tema di c.d. canapa light, ossia sulla legge 242 del 2016. Sul punto è stato affermato che la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione delle varietà di canapa ammesse (e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio europeo) è consentita purché i derivati “siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività.

Quindi viene in rilevo il tema del reato impossibile, quando la semente della canapa è biologicamente inidonea a produrre THC, ovvero in percentuale tale da essere inoffensiva, non vi è alcuna rilevanza penale.

Com’è noto, a seguito di tale pronuncia la vendita al pubblico dei prodotti suddetti è addirittura incrementata, essendo la percentuale di THC inferiore allo 0,5, quindi incapace di avere effetto psicotropo o stupefacente. Preme evidenziare che tale mercato ha, da un lato, ridotto l’attività lucrativa delle associazioni criminali e, dall’altro, tutelato la salute dei consumatori, i quali hanno la possibilità di controllare la qualità del prodotto nonché la sua provenienza.

In conclusione, le Sezioni Unite in commento hanno ritenuto che “la soluzione da dare alla questione sollevata con l’ordinanza di rimessione debba basarsi sull’affermazione della mancanza di tipicità – qualora ricorrano tutte le condizioni sopra specificate – della condotta di coltivazione domestica destinata all’autoconsumo; condotta in relazione alla quale non potrà trovare applicazione l’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, perché tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione, neanche a quella penalmente rilevante. Qualora, però, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell’art. 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale. In presenza di una coltivazione penalmente rilevante, invece, la detenzione da parte del coltivatore dello stupefacente prodotto dovrà essere ritenuta assorbita nella coltivazione, secondo le indicazioni già fornite in tal senso da Corte cost. n. 109 del 2016, per cui la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, in quanto ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.

Vi è, dunque, una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni:

  1. devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo – alle condizioni sopra elencate – per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all’esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto;
  2. la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990;
  3. alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l’art. 131-bis cod. pen., qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto.

Pertanto, nella sua funzione nomofilattica, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha definito e distinto la condotta di coltivazione (domestica e industriale), la quale presenta varie soglie di rilevanza penale a seconda della tipologia di pianta e del quantum.

In ossequio al principio di offensività in concreto, le Sezioni Unite n. 12348 del 16 aprile 2020 hanno quindi affermato il seguente principio di diritto: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

In quest’ultimo caso, quindi, si applicherà l’art. 75 TuS, salvo che la sostanza prodotta per l’autoconsumo non abbia alcun effetto drogante in concreto, non sanzionabile perché priva di offensività. Ugualmente il mero detentore di sostanza per uso personale risponderà in via amministrativa, salvo non vi sia alcun principio attivo considerato pericoloso.

Si apre quindi, finalmente, una strada per la legalità, che tutela la salute del consumatore a dispetto del lucro delle organizzazioni criminali.

Download S.U. Coltivazione-domestica

[1]Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito…

 

[2]Chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope è sottoposto, per un periodo da due mesi a un anno, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle I e III previste dall’articolo 14, e per un periodo da uno a tre mesi, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle II e IV previste dallo stesso articolo, a una o più delle seguenti sanzioni amministrative:…”.

[3] F. Lombardi, “La coltivazione domestica di piante da stupefacenti per uso personale alla luce delle recenti Sezioni Unite. Osservazioni a prima lettura”, in Giurisprudenza penale WEB, 2020, 4. https://www.giurisprudenzapenale.com/2020/04/22/la-coltivazione-domestica-di-piante-da-stupefacenti-per-uso-personale-alla-luce-delle-recenti-sezioni-unite-osservazioni-a-prima-lettura/

[4] Corte cost., sent. 10-11 luglio 1991, n. 333, in Riv. it. dir. proc. pen. 1992, 293. Su tale pronuncia, v. spec. il commento di Fiandaca, La nuova legge anti-droga tra sospetti di incostituzionalità e discrezionalità legislativa, in Foro it., 1991, I, c. 2630 ss.

 

[5] A. Cavaliere “Il controllo del traffico di stupefacenti tra politica criminale e dogmatica”, in DPEN OPINIONE OP 37292 Penale Opinioni – Diritto penale, 2014: “L’ordine pubblico è notoriamente, secondo la definizione bindinghiana, un “ripostiglio di concetti”, un concetto vago ed onnicomprensivo, incompatibile con il principio costituzionale di determinatezza; in quanto onnicomprensivo, si presta, da sempre, a fondare l’intervento penale contro tutto ciò che il potere costituito definisca disordine, laddove il contributo sussidiario del diritto penale all’ordine può consistere solo nella tutela da offese verificabili ad afferrabili beni di uno o più consociati, di significatività proporzionata a quelli aggrediti dalla pena.

Il concetto di “sicurezza pubblica” ha sostanzialmente le stesse caratteristiche vaghe ed onnicomprensive. Esso comprende, in realtà, la sicurezza della vita, dell’incolumità fisica, del patrimonio, e così via; è un predicato di altri beni giuridici, non un bene a sé stante. L’idea di sicurezza pubblica può alludere, anziché ad un bene giuridico, ad un certo modo di tutelare beni giuridici; cioè ad una variante costituzionalmente problematica della prevenzione speciale negativa – “sicurezza” intesa come neutralizzazione di soggetti pericolosi – ovvero della prevenzione generale positiva, nel senso della “rassicurazione” (simbolica) dei consociati.

Quanto alle “pulsioni criminogene” indotte dalla tossicodipendenza ed al “prosperare della criminalità organizzata”, non si tratta di beni giuridici, ma di motivazioni, di rationes che dovrebbero legittimare la tutela penale di beni da individuare con precisione. Con quelle espressioni vengono evocati, infatti, pericoli per beni diversi e più concreti di ordine e sicurezza; pericoli non sempre verificabili – dal momento che non tutte le sostanze stupefacenti inducono pulsioni criminogene – e talora solo remoti o indiretti, come si avrà modo di vedere più avanti; ma soprattutto, pericoli in rapporto ai quali ci si dovrà porre la questione dell’effettività, ovvero se l’intervento penale sia uno strumento adeguato contro tali fenomeni o, piuttosto, finisca per favorirli, nel qual caso il diritto penale non sarebbe legittimato in funzione di tutela di beni giuridici.

Resta, dunque, il solo richiamo, operato dalla giurisprudenza citata, alla salute pubblica ed alle giovani generazioni. In effetti, una salute “pubblica” non esiste, se non come salute di una o più persone. Ed i giovani sono i più colpiti dagli effetti nocivi per la salute di alcune droghe. Dunque, un bene legittimamente tutelabile in materia di droghe c’è: si tratta della salute della persona”.