di Antonio Bevere

 

Le ricorrenti cronache su violenze disumane inflitte da forze dell’ordine a detenuti, imputati, semplici cittadini (nel carcere Delle Vallette a Torino e nella stazione dei CC a Piacenza) attualizzano alcuni punti della sentenza 14 novembre 2019, emessa dalla corte di assise di Roma, sul caso Cucchi. Come è noto, il collegio ha accertato la responsabilità di due militari per l’omicidio preterintenzionale del giovane romano, arrestato per illecito possesso di modeste quantità di sostanze stupefacenti: causa remota della morte sono risultate le lesioni brutalmente cagionate sul corpo del giovane, la cui natura e gravità hanno avuto propulsivo e ineludibile “peso causale” nell’evento letale. Il passaggio in giudicato di questa decisione sarà di rilevanza storica, contenendo l’accertamento di fatti esemplari sull’incivile atteggiamento di alcuni organi dello Stato nei confronti dei diritti inviolabili delle persone sottoposte a restrizioni di libertà.

La conoscenza delle violenze passate è indispensabile per valutare la gravità di quelle presenti.

La dimensione del fenomeno della violenza delle forze dell’ordine (fatti di Genova del luglio 2001) ha reso necessaria l’introduzione, con la legge 14.7.2017 n.110, dell’articolo 613 bis cod. pen, Tortura, che prevede severe sanzioni contro Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa. In caso di morte non voluta della vittima, la pena è di 30 anni di reclusione. L’applicazione di questa norma è naturalmente esclusa al caso in esame, in considerazione della data della morte (22 ottobre 2009). E’ da rilevare comunque che le condotte addebitate ai responsabili sono risultate espressione di crudeltà, hanno cagionato acute sofferenze a una persona privata della libertà personale e affidata alla loro custodia.

Dal processo Cucchi è emersa anche una serie di avvenimenti che – raggiunta la res iudicata – sono idonei a dimostrare la non eccezionalità dei crudeli atti di violenza, alla luce, da un lato, dell’assenza di uno spontaneo ravvedimento, di un collaudato protocollo di vigilanza, di un autonomo sistema sanzionatorio; dall’altro, dalla presenza di un meccanismo diretto a costruire falsità, conquistare impunità, preservare l’onore dei singoli e dell’Arma in danno della verità giudiziaria.

Strumento indispensabile è stata la manipolazione del processo verbale di arresto con il correlato sbianchettamento del registro attestante la presenza del detenuto e dei suoi custodi nell’ufficio in cui sono state commesse le violenze (uffici della Compagnia Casilina). Nel verbale è omessa l’indicazione dell’atteggiamento ribelle e polemico dell’arrestato, che ha determinato la dura reazione punitiva dei militari, illecitamente anticipatrice dell’intervento dell’autorità giudiziaria.

Riteniamo necessario andare al di là della perfetta ricostruzione dei fatti di cui alle imputazioni sub A e C, per soffermarci su un aspetto da collocare nella storia dei rapporti tra poteri dello Stato e le persone in stato di restrizione di libertà e del correlato grado di sensibilità culturale e sociale per tale delicato tema. La violenza esercitata dalle forze dell’ordine su un detenuto, classificato dalla deviata cultura dell’uomo massa come soggetto pericoloso, sospetto o comunque inviso, appare una salutare anticipazione della pena legale. La supplenza punitiva dell’organo di polizia è considerata strumento di giustizia immediata e libera da cavilli giudiziari, che rendono la pena incerta sul se e sul quando.

E’ bene a questo punto rammentare che la nostra Costituzione, all’art. 13 co. 4, impone ai pubblici poteri uno specifico obbligo censorio e sanzionatorio, in difesa della vita e della dignità di tutti: “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”.

Questo dovere giuridico ed etico non ha trovato adeguato rilievo nel corso dell’ultimo incontro di Stefano Cucchi con la giustizia esercitata in nome del popolo italiano.

Successivamente al suo pestaggio, avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, il detenuto ebbe incontri con professionisti, pubblici ufficiali, incaricati di pubblici servizi, privati cittadini che ebbero pronte reazioni emotive ed operative dinanzi alla lampante trasparenza del quadro lesivo del suo corpo martoriato. Unica silenziosa e indecifrata parentesi si riscontra nei comportamenti dei titolari della funzione giudiziaria formalmente presenti nell’aula 17 del tribunale di Roma, il 16 ottobre 2009, per celebrare l’udienza di convalida dell’arresto di Cucchi.

Nella valutazione di questo silenzio, ci sembra utile un raffronto con altra udienza di processo a carico di imputato detenuto, svolta in un tempo tanto lontano. Precisamente il 13 giugno 1972, viene condotto l’imputato dinanzi al Pretore di Milano, G. M. C, che – quale titolare di potere inquirente e giudicante – avverte l’interesse per il suo stato di salute, tanto da chiedergli “come stava e se era trattato bene in Carcere”.

Non siamo in grado di stabilire se questo interrogativo sia stato dettato dal naturale controllo del doveroso trattamento umanitario del detenuto (art. 27 Cost.) o dalla percezione di segni di violenza fisica e morale in danno di persona sottoposta a restrizione di libertà (art. 13 Cost.). Non siamo in grado di conoscere, se, in questa seconda ipotesi, il doveroso intento di fugare il dubbio sulla liceità del trattamento carcerario abbia avuto un seguito investigativo nei confronti di appartenenti alle forze dell’ordine. Comunque, grazie al Quadro dei procedimenti disciplinari in corso contro giudici di Magistratura Democratica, siamo in grado di conoscere il seguito censorio che questo interrogativo ha avuto nei confronti del dubbioso pretore. Da questo originale documento – risalente al 1974 – apprendiamo che è stato instaurato procedimento disciplinare nei confronti del pretore G. M. C., con la seguente incolpazione: «Violazione dell’art. 18 del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, per avere mancato ai suoi doveri e tenuto una condotta tale da compromettere il prestigio dell’Ordine giudiziario, per avere – all’udienza del 13 giugno 1972, da lui tenuta – chiesto all’imputato detenuto come stava e se era stato trattato bene in Carcere». La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza 15 gennaio 1975, ha assolto il pretore, perché le deposizioni di accusa era incerte ed indirette, ma specialmente perché storicamente «… E’ risultato certo che quell’imputato, del quale il pretore si sarebbe interessato circa il trattamento ricevuto in carcere, fu condannato e ciò fornisce un elemento che vale a rimuovere il sospetto circa un atteggiamento inopportuno e inutilmente pietistico del magistrato». In altri termini, il dubbio sul trattamento del detenuto ha creato nell’organo disciplinare il sospetto che il pretore potesse aver maturato nei confronti di quest’ultimo, un atteggiamento inopportuno e inutilmente pietistico, ritenuto trasgressivo dei doveri del magistrato e lesivo del prestigio dell’Ordine giudiziario. A nostro avviso il dubbio sulla liceità del trattamento carcerario nei confronti del detenuto – in caso di segni rilevanti in tal senso – non è atto pietistico, ma è comportamento doveroso umanamente e giuridicamente. Non è possibile conoscere la specifica condizione fisica dell’imputato che è stato presentato in stato di restrizione, ma è possibile razionalmente affermare che

  • il pretore ha svolto il suo doveroso compito di garanzia dell’incolumità e della dignità del detenuto, qualunque fosse il delitto contestato e qualunque fosse la sua condizione sociale;
  • dinanzi a un possibile segnale di violazione di questi beni, ha pubblicamente e informalmente messo in evidenza l’esigenza di accertare la legittimità del trattamento ricevuto nella struttura carceraria di provenienza, riconoscendo la superiorità dei valori costituzionali ex artt. 2, 13 e 27 della Costituzione.

Questa sua doverosa vigilanza democratica è sicuramente espressione del comune sentire della società degli anni ’70 , attenta al rispetto dei valori costituzionali.

Torniamo all’udienza, svoltasi tra le ore 12,35 e le ore 13,15 del 16 ottobre 2009, e vediamo che gli atti non attestano alcun atteggiamento inopportuno e inutilmente pietistico da parte di nessuno dei protagonisti, nei confronti del detenuto ferito.

In sintesi, nel tribunale di Roma, nella mattina del 16 ottobre 2009, è stato condotto un giovane che era stato arrestato il giorno precedente da agenti di polizia giudiziaria della stazione CC Appia di Roma. Le sue condizioni fisiche hanno provocato le seguenti reazioni: l’appuntato Schirone – incaricato della traduzione presso il tribunale per la celebrazione dell’udienza di convalida – riferisce che il detenuto, ancora sulla branda nella cella di sicurezza, «si è alzato con una certa fatica, si presentava abbastanza stanco, provato…aveva il viso gonfio e aveva delle macchie evidenti sotto gli occhi, intorno agli occhi…degli ematomi sul viso e aveva un andamento irregolare, non camminava regolarmente», tanto da rendere necessario l’ausilio di un collega per salire le scale. Trasferito nella camera di sicurezza del tribunale di Roma, il gonfiore del suo viso è notato dalla detenuta A. M. Costanzo, attraverso lo stretto varco (cd spioncino) esistente sulla porta della cella in cui era ristretta. L’avvocatessa M. Tiso, dinanzi all’aula 17 del tribunale, nota il viso “gonfio e violaceo” e la lenta e anomala andatura del Cucchi, mentre era condotto in manette all’interno dell’aula.

Conclusa l’udienza, alle 14,05 il dottor G. B. Ferri – in servizio di assistenza medica presso il tribunale penale di Roma – ha certificato «presenza lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore lateralmente, di lieve entità, colorito purpureo». Nella sua testimonianza, il sanitario ha precisato di aver notato sul viso del Cucchi, che aveva rifiutato una più accurata visita « segni rossastri, ovvero lesioni da evento traumatico di color porpora, recenti, risalenti al massimo a delle ore precedenti. Quanto alla deambulazione, ha ricordato che era leggermente curvo e cercava di scaricare un po’ del peso appoggiandosi con la mano alla parete». La condizione lesiva aveva determinato «quale particolare aspetto del volto, ancor oggi riscontrabile nelle fotografie della salma in atti» (perito, prof. Introna).

L’appuntato di polizia penitenziaria A. La Rosa, nel corso della traduzione in carcere, non applicò manette al Cucchi «poiché camminava male, tutto storto da un lato e aveva difficoltà a reggersi in piedi, tanto da suscitare il commento di altri detenuti: ha avuto un incontro di pugilato con la parte del sacco». L’avvocato, convocato come difensore di ufficio, non è in grado di coltivare la doglianza del detenuto per l’omesso avviso al difensore di fiducia. Nessuna domanda sulla causa di questo lampante quadro di lesioni di origine traumatica viene rivolta dall’accusa e dalla difesa, né il tribunale ritiene di integrare l’interrogatorio dell’imputato sul punto. Dagli atti istruttori del processo per la morte di Cucchi, risulta che il p.m. e il giudice monocratico hanno escluso di aver notato qualcosa di particolare sulle sue condizioni fisiche. Il titolare della pubblica accusa ha precisato «Non ho guardato in faccia l’arrestato, come di solito accade, anche a causa della posizione parallela dei banchi in aula tra accusa e difesa, che impediscono al pubblico ministero di vedere in faccia l’arrestato. Neppure il giudice ha palesato alcun dubbio su condizioni fisiche dell’arrestato, né ha formulato domande in tal senso». E’ stata mostrata al magistrato la fotografia scattata al momento in cui il Cucchi è entrato a Regina Coeli «A.d.r. non ricordo di aver visto questo viso che mi viene mostrato». L’udienza a carico del giovane si conclude con la convalida dell’arresto e con l’emissione dell’ordinanza del tribunale di custodia in carcere, senza che abbia ricevuto alcun rilievo la compatibilità o meno della carcerazione preventiva con lo stato di salute dell’imputato. E’ quindi sfuggita all’attenzione del titolare della pubblica accusa la vivente, flagrante, sofferente notitia criminis, rappresentata dai segni di lesioni di origine traumatica, impressi sulla persona detenuta. L’art. 50 comma 1 c.p.p. dispone per il pubblico ministero l’obbligatorietà dell’accertamento dei reati ogniqualvolta si presenti alla sua attenzione, in qualsiasi forma, il segno della consumazione di un reato. La norma usa la formula disgiuntiva: ogniqualvolta ritenga di non chiedere l’archiviazione (art. 408 c.p.p.), l’organo requirente instaura il processo; tertium non datur ex art. 112 Cost.

Se magistratura e giurisprudenza riflettono cultura e comune sentire della società, possiamo dire

che a monte della vigilanza del vecchio pretore milanese per la salute del detenuto c’era una collettività attenta verso tutte le manifestazioni di illegalità in danno dei deboli e che a monte del silenzio dei moderni magistrati romani ci siamo tutti noi, con il venir meno della vigilanza democratica, con l’abbandono della critica costruttiva verso le istituzioni.

In assenza di cognizioni su accertamenti degli organi di controllo sulle ragioni del silenzio nell’aula 17 del tribunale di Roma, nell’udienza del 16 ottobre 2009, non potremo sapere e valutare

  • quale scala di valori abbia guidato la rinuncia del p.m. – a causa dell’allineamento dei banchi nell’aula di udienza – ad avere una completa percezione del volto della persona arrestata e nei cui confronti aveva formulato domande parzialmente de remoto, sui fatti e sulla sua personalità;
  • quale scala di valori abbia condotto il titolare della pubblica accusa e il giudice monocratico a differenziarsi dall’antico collega milanese rispetto al doveroso interesse per la salute del detenuto;
  • quale scala di valori abbia ispirato gli organi di controllo nel chiedere o nel non chiedere conto ai magistrati del loro comportamento in una vicenda che si è conclusa con la morte di un cittadino, all’esito di giorni di sofferenze, di dolore, di umiliazione.