di Silvio Gambino, Ugo Adamo e Walter Nocito*
Nel gioco dialettico tra Costituzione e Politica che gli artt. 138-139 delineano, conformano e irrigidiscono, i ‘sovrani popolari’ si sono espressi, il primo giorno dell’autunno del 2020 in favore della riduzione (da molti, fra cui chi scrive, ritenuta) drastica del numero dei parlamentari che gli stessi avevano approvato secondo la procedura aggravata di revisione nell’autunno del 2019.
L’entrata in vigore della Legge costituzionale approvata dal corpo referendario produrrà i suoi effetti – come è noto – a partire dalla prossima Legislatura, che inizia nel 2023 fatta salva l’ipotesi di uno scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica che potrebbe determinarsi in tal senso solo in presenza di un crisi di governo (che non si riscontra e, presumibilmente, non si potrà riscontrare neanche nella finestra elettorale della primavera del 2021), e che arriverà a fine mandato, con conseguente rinnovo della carica, nel gennaio 2022.
In questo scenario e con questo scadenzario, nel tempo a sua disposizione, il Governo ‘Conte 2’ (in forza dell’art. 3 della legge n. 51 del 2019) è delegato ad adottare un decreto legislativo per la ri-determinazione dei Collegi uninominali e plurinominali stabiliti dal Rosatellum-bis per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica – entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della appena approvata legge costituzionale –, e le Camere potranno procedere ai ‘correttivi’ richiesti.
Anzitutto nello scenario post-referendum è costituzionalmente opportuno sottolineare come il Parlamento in carica non subisca una sua delegittimazione ad opera dell’esito del referendum svolto, per come taluno nel dibattito politico ha avuto modo di affermare, con eccessiva fretta.
Con riferimento alle responsabilità (al plurale) della Politica, devono incardinarsi in capo all’attuale Governo e alla maggioranza parlamentare in primis, e poi in capo all’intero Parlamento nei due rami che paritariamente lo compogono, le responsabilità costituzionali nel provvedere alle conseguenze ordinamentali che la revisione confermata dal voto referendario produce.
Rimane confermato, parimenti, che, sotto i profili propriamente costituzionali, non siamo in presenza di un dovere ricadente sul Parlamento quanto piuttosto di una responsabilità politico-istituzionale volta ad assicurare il regolare funzionamento delle istituzioni costituzionali (parlamentari, e non solo).
Se quanto procede è vero, agli osservatori e alla dottrina rimane, nel post-referendum, il compito di comprendere il senso e la fondatezza di quelle preoccupazioni che hanno portato una parte degli elettori italiani (non trascurabile) ad esprimersi contro la revisione approvata, assumendo come essa possa costituire un vulnus della democrazia rappresentativa in assenza di un disegno istituzionale organico, e che rinvia comunque alla volatilità delle future maggioranze.
I ‘correttivi’ di cui si è parlato e a cui (di seguito) faremo qualche cenno abbisognano in ogni caso di una valutazione nel merito, non essendo sufficiente la loro mera auto-qualificazione come correttivi di per sé migliorativi, potendo anche porsi – gli stessi – come aggravamento e non necessariamente come miglioramento delle condizioni di funzionalità delle istituzioni nel loro complesso.
Fra gli interventi che necessiterebbero di un’adeguata e politicamente non rinviabile decisione parlamentare (e non governativa) se ne possono richiamare alcuni rientranti in almeno tre ambiti materiali: quelli dei regolamenti parlamentari, delle altre disposizioni costituzionali e della legge elettorale.
Tali riforme – da adottarsi anche in modalità parallela – devono rispondere ad una ‘filosofia istituzionale’ che deve essere ancora assunta e sulla quale il pronunciamento referendario non è di grande aiuto: mantenere o superare il bicameralismo paritario? muovere verso il monocameralismo ovvero valorizzare il protagonismo regionale con una costituzionalizzazione delle aspettative istituzionali territoriali in una ‘Camera delle Regioni’?
Quanto ai regolamenti parlamentari e alla complessità (di certo non automatica e avalutativa) relativa al come procedere alla loro riforma, qui basterebbe solo citare un esempio di aritmetica istituzionale: la riduzione del numero dei parlamentari non consente la costituzione delle Commissioni le quali richiedono per la loro formazione la presenza rappresentativa e proporzionale dei vari Gruppi parlamentari formatisi nelle Camere.
Soprattutto al Senato, la riduzione drastica degli eletti costituirà piccoli gruppi che non saranno nelle condizioni di assicurare la presenza dei propri componenti nelle 14 Commissioni permanenti (senza prendere in considerazione le ulteriori esigenze di tutti gli altri organi parlamentari come le commissioni speciali, quelle di inchiesta, gli uffici di presidenza, le giunte, le commissioni bicamerali, ecc.).
La risoluzione del problema evidenziato non appare né scontata né priva di criticità in entrambe le soluzioni possibili: o diminuire il numero delle Commissioni permanenti, accorpandole, ma con conseguente aggravio di lavoro per i parlamentari che saranno pochi rispetto ad un esponenziale aumento del lavoro e con il venir meno del collegamento materiale tra commissioni e dicasteri, ovvero lasciare inalterata l’organizzazione interna delle Camere, riconoscendo però la possibilità (come avviene già al Senato) che ogni parlamentare possa far parte contemporaneamente di più commissioni, con la conseguenza – in mancanza della facoltà della ubiquità – di una più che possibile diminuzione dell’efficienza dell’organo e della stessa sua capacità produttiva in termini qualitativi.
Quanto alla riduzione del numero dei delegati regionali per la costituzione del Collegio che dovrà procedere all’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83, c. 2, Cost.), è già agli atti parlamentari una proposta di revisione costituzionale che ne prevede la riduzione nella misura di un terzo, al fine di riprodurre lo stesso peso percentuale ora vigente nel Collegio medesimo. Anche in questo caso non pare consentita una valutazione acritica se si ha in mente la ratio della disposizione costituzionale per cui ogni regione (esclusa la Valle d’Aosta) può esprimere tre delegati. Il numero 3 rappresenta quella quantità minima idonea a consentire che gli eletti dal Consiglio regionale assicurino la rappresentanza delle minoranze. Ridurre a 2 i delegati regionali eligendi comprometterebbe questo rapporto in quanto non esisterebbe più un’espressione di maggioranza e la minoranza verrebbe, quindi, sovra-rappresentata. Questo è un ‘correttivo’ che non riesce nel suo intento di correzione dimostrando ancora una volta che il ‘taglio’ dei parlamentari operato è stato drastico e privo di qualsivoglia disegno.
Quanto alla legge elettorale, la riduzione numerica dei parlamentari comporta in modo quasi obbligato, ai fini del rapporto fra rappresentanza e governabilità (in ossequio al bilanciamento costituzionalmente richiesto da ultimo anche dalla Corte costituzionale), l’adozione di un sistema elettorale proporzionale, in quanto la riduzione del numero dei parlamentari già comporta, di per sé, l’operatività di una soglia implicita di sbarramento (da alcuni commentatori calcolata fino al 3%), alla quale ora non può aggiungersi una ulteriore gravosa soglia, esplicita, come quella di cui si sta discutendo nella misura del 5%.
Più sopra ci si chiedeva se e quale fosse la ‘filosofia istituzionale’ che dovrebbe reggere le riforme che la vittoria del SI avrebbero comportato in modo consequenziale.
Nelle ultime settimane sono stati depositati due disegni di legge costituzionale che forse allontanano dal presente scenario istituzionale il superamento del ‘bicameralismo paritario’ e la stessa nascita di un ‘Senato delle Regioni’.
Ed infatti con riguardo al superamento del bicameralismo, si può dire che gli effetti distorsivi della riforma, oltre a non essere corretti con il superamento delle differenze fra elettorato attivo e passivo fra le due Camere (proposta AS 1440), paradossalmente, risulterebbero accentuati in quanto ad una decisione appena votata del ‘taglio’ dei parlamentari corrisponderebbe un ampliamento della base elettorale del Senato, con aggravio della già denunciata dis-rappresentatività del Senato.
Anche rispetto a quest’ultima criticità, la riforma che vorrebbe superare la base regionale per l’elezione del Senato (AC 2238) andrebbe in contrasto proprio con l’idea di rendere il Senato una Camera rappresentativa delle Regioni.
Se si convenisse su quanto finora espresso, comunque, si deve rimarcare come il voto dei ‘sovrani popolari’ in favore della riduzione drastica continua a lasciare senza risposta il vero quesito che il Paese può porsi, e cioè il superamento o meno del bicameralismo perfetto che il pronunciamento referendario non tocca.
I problemi sono posti e già ben noti allo stesso sistema politico-partitico che aveva raggiunto un’intesa sulla riforma pur consapevole della necessità di dover procedere a ciò che ora rimane comunque una mera dichiarazione di intenti, in assenza dell’avvio di un proficuo dibattito parlamentare.
Il che, come si è potuto evidenziare in questa breve nota, non sarà né scontato né agevole.
Qualora la Politica non fosse nelle condizioni di trovare alcuna mediazione, occorre essere consapevoli, comunque, che nessun correttivo potrà essere adottato in modo automatico (e meccanicistico). Buon lavoro al Parlamento!
* Costituzionalisti, Docenti UniCal