di Augusto Cerri
Pier Camillo Davigo al 20 ottobre 2020 è stato collocato a riposo.
Il C. S. M., nella seduta del 19 ottobre c. a., al termine di una intensa e profonda discussione, è pervenuto alla “scelta dolorosa” (come ha detto il Vice-Presidente Ermini) di dichiararlo, in conseguenza di ciò, decaduto dalle funzioni di consigliere del C. S. M.
Cerchiamo di sintetizzare gli argomenti a favore e contro la decisione presa. Premetto che alcuni argomenti, in un senso o nell’altro, sono replica ad argomenti di segno opposto; e, dunque, presuppongono la cognizione di questi. Ciò crea un qualche problema nell’ordine di esposizione, che risolvo anticipando brevemente, in entrambi i casi, le argomentazioni di segno opposto che poi ripeto con qualche ulteriore sviluppo nella sede propria. Inizio, ovviamente, con gli argomenti a sostegno della tesi che ha prevalso.
In senso favorevole alla decadenza, appunto, si è osservato:
l’esercizio delle funzioni giurisdizionali è un presupposto contemplato dalla legge per il conseguimento ed il mantenimento della qualità di membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura e non è mero requisito di eleggibilità passiva (argomento desunto dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 2416 del 2011, sul caso Borraccetti);
il C. S. M. è organo di autogoverno dei giudici e cesserebbe di esser tale ove chi ne fa parte non possedesse in atto la qualità di magistrato (argomento desunto dalla detta sentenza);
è prevista una proporzione fra componente togata e componente laica del C. S. M., che risulterebbe alterata irrimediabilmente, ove si ammettesse una sorta di tertium genus costituito dagli “ex magistrati” (argomento desunto dalla detta sentenza);
altra cosa è la decadenza, che deve esser tassativa, si è aggiunto, ed altra la mancanza (anche sopravvenuta) dei requisiti per assumere ed espletare l’ufficio;
anche se il C. S. M. non fosse in senso stretto organo di rappresentanza della magistratura e di autogoverno dei magistrati, è pur sempre organo di garanzia ed a ciò è necessaria un componente togata;
la durata quadriennale dell’incarico (art. 32 della legge istitutiva) è riferita all’organo consiliare e non ai singoli componenti elettivi;
l’art. 39 della legge istitutiva del C. S. M. prevede la conseguenza della cessazione dalle funzioni di consigliere del C. S. M., senza specificare quali siano le ipotesi che la determinano e, dunque, le comprende tutte, senza escluderne alcuna;
il magistrato, d’altra parte, può cessare dalle funzioni anche per altri motivi, come quello di essere passato ad altra magistratura, ad es., a quella amministrativa o di perdere la cittadinanza italiana, etc.: e ciò rileva, evidentemente, ai fini della permanenza nella carica di consigliere del C. S. M.;
l’art. 4 della legge istitutiva prevede che faccia parte della Sezione disciplinare un magistrato di Cassazione con esercizio effettivo delle funzioni di legittimità e ciascun magistrato di Cassazione eletto nel Consiglio deve essere astrattamente idoneo a ricoprire questo incarico;
l’art. 5 della legge istitutiva prevede, per la validità delle deliberazioni del Consiglio superiore, la presenza di almeno dieci magistrati e di almeno cinque componenti eletti dal Parlamento, mentre non prevede la figura dell’ex magistrato;
si è sempre inteso che il pensionamento sia causa cessazione dalla funzione espletata nel consiglio giudiziario;
è vero che l’art. 104 Cost., ultimo comma, nel prevedere le incompatibilità del consigliere del C. S. M. non distingue fra componente togata e laica, quasi presupponendo che non cessi dalla carica il consigliere, eletto come togato, che poi si dedichi all’esercizio dell’attività professionale, ad es.: ma l’art. 33, comma 2, della legge istitutiva riferisce questa incompatibilità ai soli membri eletti dal Parlamento.
In senso contrario alla decadenza si è osservato:
non è accettabile si disattenda o si eluda l’esito di una votazione avvenuta (nel caso: con amplissimo suffragio a favore del Davigo);
secondo la dottrina e secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 142 del 1973, relatore: Crisafulli) l’espressione organo di autogoverno della magistratura ha carattere enfatico: non può, dunque, fondare (come ritiene invece la sentenza del Consiglio di Stato n. 2416 del 2011) un motivo inderogabile che comporti la cessazione dalle funzioni consiliari del magistrato, al momento della cessazione del servizio;
si è sempre ammesso che un professore universitario non cessi dalle funzioni consiliari per il fatto di essere collocato a riposo;
la figura del magistrato a riposo era stata considerata nei lavori dell’Assemblea Costituente, anche se non ha trovato seguito nella Costituzione; ciò proverebbe che il magistrato a riposo è considerato altro rispetto al componente laico;
nessuna norma, né di grado costituzionale, né di grado legislativo, prevede tra le cause di cessazione dalle funzioni di consigliere del C. S. M. il collocamento a riposo; l’effettivo esercizio delle funzioni è richiesto solo come condizione di eleggibilità, ai sensi dell’art. 24 della legge istitutiva del C., S. M.;
non sarebbe consentita alcuna lettura estensiva o analogica delle ipotesi di decadenza, stante il carattere eccezionale delle norme che le prevedono (in questo senso si è citata anche la sentenza n. 11580 del 2016 della Corte di Cassazione);
di più: la normativa che concerne il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa prevede espressamente una decadenza per cessazione o mutamento delle funzioni richieste ai fini dell’eleggibilità (art. 7, n. 4, L. n. 186 del 1982);
l’art. 39 di tale legge, d’altra parte, si limita a prevedere il subentro del primo dei non eletti, in ipotesi di cessazione dalle funzioni di consigliere del C. S. M., ma non fonda un’autonoma ipotesi di decadenza;
sarebbe autentica ed esemplare petizione di principio desumere da una formula meramente riassuntiva un’autonoma ipotesi sostanziale di decadenza;
di più: il testo originario dell’art. 39 L. n. 195 del 1958 prevedeva i modi di sostituzione del magistrato che “cessi dalla carica per la perdita dei requisiti di eleggibilità o per altra ragione”; con una riforma del 1990 viene eliminato il riferimento alla perdita dei requisiti di eleggibilità: non si può far rivivere in via interpretativa un requisito abrogato dalla legge;
l’effettività di funzioni di magistrato di Cassazione prevista dall’art. 4 della legge istitutiva per la composizione della Sezione disciplinare, non può che fare riferimento ad un requisito richiesto al momento dell’elezione;
il “magistrato a riposo” non integrerebbe un tertium genus fra componente togata e componente laica, ma continuerebbe a far parte della prima;
l’art. 104, ultimo comma Cost., prevede che i componenti del C. S. M., durante l’esercizio del mandato, non possano essere iscritti in albi professionali, senza distinguere fra componenti togati o laici: non può questa norma vietare ai componenti togati ciò che sarebbe già non possibile per altra ragione (e cioè: se il componente togato non potesse cessare dalle funzioni durante il mandato).
La vicenda, probabilmente, avrà un seguito giudiziario. Mi sembrerebbe, dunque, azzardato pretendere di dire “l’ultima parola” sugli argomenti onde si sostanzia. L’ultima parola sarà detta nelle sedi proprie.
Alcune osservazioni a margine.
Ho già accennato alla tensione ed alla profondità del dibattito: aggiungerei che mi sembra significativa la diversità del voto individuale anche di membri appartenenti alla medesima lista. Il problema della libertà di valutazione dei membri del C. S. M., fuori da una disciplina di corrente, è stato sollevato dal consigliere Aniello Nappi, nella sua relazione “C. S. M. e crisi della rappresentanza”, nel convegno su “Le correnti ed il loro ruolo nel sistema giudiziario italiano: alcuni interrogativi”, in Critica del diritto, gennaio – giugno 2018, in polemica con una prassi contraria che si andava consolidando.
Che ciò sia avvenuto è un buon segno: conferma le forti capacità di autocritica ed autocorrezione della Magistratura.
In linea generale mi sembra evidente che l’espressione “autogoverno della Magistratura” sia enfatica; e sembra, inoltre, da escludere una vera rappresentatività del C. S. M. Non si è mancato di sottolineare (ricordo, ad es., Mortati) come il Costituente abbia accuratamente evitato di caratterizzare in senso corporativo questo strumento di garanzia. È vero però che di garanzia dell’indipendenza della magistratura si tratta. Ciò dico a prescindere dalle ricadute che possono derivarne sul caso in esame; questa discussione, del resto, potrebbe esser “troppo teorica” per divenire davvero decisiva.
Merita qualche ulteriore ragguaglio la storia legislativa dell’art. 39, che segue quella dei sistemi elettorali del C. S. M., poiché l’articolo prevede modi di sostituzione, coerenti con il sistema elettorale di volta in volta in vigore, del componente in seguito cessato dalle funzioni: il testo originario si riferiva, appunto, al membro del C. S. M. il quale “cessi dalla carica per la perdita dei requisiti di eleggibilità o per altra ragione”; questa disposizione venne sostituita dall’art. 10 della L. n. 1198 del 1967 per cui: “I componenti magistrati che cessano dalla carica nel corso del quadriennio sono sostituiti …”; ricompare una formula simile a quella originaria nell’art. 6 L. n. 695 del 1975 (… “vengono chiamati a sostituire i componenti della stessa categoria che cessino dalla carica per la perdita dei requisiti di eleggibilità ovvero per qualsiasi altra ragione” …); con l’art. 13 della L. n. 74 del 1990 ricompare la formula del 1967 (“Il componente eletto dai magistrati che cessa dalla carica per qualsiasi ragione prima della scadenza del Consiglio” …), che viene confermata dall’art 11 della L. n. 44 del 2002 (“Il componente eletto dai magistrati che cessa dalla carica per qualsiasi ragione”).
La tesi che esclude cause di decadenza non previste dalla legge non è un mero argumentum a contrario, perché si fonda sul carattere necessariamente tassativo delle previsioni in proposito, derogative rispetto al principio di eleggibilità.
A sua volta, la tesi per cui il requisito dell’esercizio effettivo delle funzioni sarebbe essenziale non solo per l’elezione ma anche per la conservazione dell’incarico non è un mero argomento analogico, perché si fonda sul preteso carattere che questo esercizio avrebbe di requisito per essere membro togato.
Nell’essenziale, dunque, è stato evitato il rischio di un sostanziale vuoto di criteri nella scelta fra argomento a simili ed argomento a contrario, segnalato dal Bobbio (voce Analogia in Nss. Dig. it.), peraltro contestato, ad es., dal Modugno (in Lineamenti di teoria del diritto oggettivo), sulla base del rilievo che l’analogia richiede una ratio.
Se dovesse prevalere la tesi della necessaria decadenza dalle funzioni consiliari del componente togato quando cessi dal servizio penso che dovrebbe essere anche ritoccata la legge istitutiva nel senso di assumere a requisito di elettorato passivo quello di un’anzianità di servizio residua eguale o superiore alla durata della “consiliatura”,
Ricordo l’art. 2, comma 11, della L. n. 240 del 2010 per cui “L’elettorato passivo per le cariche accademiche è riservato ai docenti che assicurano un numero di anni di servizio almeno pari alla durata del mandato prima della data di collocamento a riposo”. A questa formulazione normativa si è pervenuti dopo travagli legislativi, che non è il caso di ricordare.
In alternativa, penso sarebbe fortemente opportuno se non proprio necessario segnalare (accanto al nome del candidato) la data di sua, eventualmente prematura, cessazione dal servizio e dalle funzioni consiliari: perché non mi sembra corretto chiamare gli elettori ad una scelta il cui carattere relativamente effimero fosse certo ma risultasse in qualche modo non palese.
Ho più volte affrontato il tema dell’indipendenza della Magistratura, delle garanzie che la assistono e delle possibili riforme, oltre che nel convegno del 2018, pubblicato, come detto, in Critica del diritto gennaio- giugno del medesimo anno. Ho in tutte le occasioni ricordato con favore la legge n. 511 del 1907 e la legge n. 438 del 1908 (“riforma Orlando”), istitutive del primo Consiglio Superiore della Magistratura, per cui erano eleggibili anche magistrati a riposo, perché ho visto in ciò un principio idoneo a temperare le passioni, a volte troppo accese, cui un sistema elettorale può dare origine. Esistono vari modi di garanzia dell’indipendenza della Magistratura, ho sostenuto, e ciascuno può essere il più adatto ad un certo contesto storico, ma ciascuno, può contenere, accanto ai vantaggi, anche costi occulti. Il sistema del Consiglio Superiore, che ci deriva dall’esempio francese, è ormai scritto nella storia della Magistratura italiana e ne garantisce l’effettiva indipendenza da “poteri esterni”, ma non, forse, da sé stessa. Occorre, però, ridurre o eliminare i costi che esso, come ogni altro, comporta. A questi fini ho proposto varie riforme fra cui questa che deriva dalle leggi originarie che lo istituirono e che ha trovato eco in Assemblea Costituente. Il dibattito svoltosi sul “caso Davigo” mostra come questa ipotesi dovrebbe essere accuratamente disciplinata, nelle sue condizioni e nelle sue modalità, anche oltre l’ipotesi di sopravvenuta e non originaria cessazione dal servizio.