Dottrina e giurisprudenza non concordano: colte le radici del dissenso e misurato lo standard garantistico delle due impostazioni.

di Clara Deflorio

 

Sommario. 1. Inquadramento tematico. – 2. La nozione di “cosa” nel diritto civile. – 3. Le forze naturali, come l’energia elettrica, considerate come “cosa mobile” ai fini penali. – 4. Il concetto di file nella terminologia informatica. – 5. L’impostazione della dottrina sulla qualificazione del file come “cosa mobile”. – 6. L’evoluzione giurisprudenziale sulla riconducibilità del file alla nozione di “cosa mobile”. – 7. Dottrina e giurisprudenza: lo standard garantistico delle due impostazioni messo a confronto. – 8. Osservazioni conclusive.

  1. Inquadramento tematico. La quaestio iuris che ha riguardato la recente giurisprudenza di legittimità concerne la possibilità di qualificare i dati informatici, in particolare singoli files, come cose mobili, ai sensi delle disposizioni della legge penale e, specificamente, in relazione alla possibilità di costituire oggetto di furto.

La norma di cui all’art. 624 c.p., rubricato “Furto”, incrimina la condotta di chi si impossessa della cosa mobile altrui, attraverso la sottrazione a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri. Profitto inteso come qualsiasi utilità o vantaggio, anche di natura non patrimoniale.

La fattispecie incriminatrice in esame è posta a tutela dell’integrità del patrimonio pubblico e privato, un “bene, preesistente alla norma e assunto ad elemento costitutivo della fattispecie, esplicito o implicito[1]. Difatti, la norma di cui all’art. 624 c.p. trova il proprio fondamento positivo nella previsione di rango costituzione ex art. 42 Costituzione, che ne tutela la componente più significativa rappresentata dal diritto di proprietà.

Il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali di godimento che la persona offesa vanta sulla “cosa mobile”, ma altresì nel possesso – inteso come relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità[2] -, configurabile anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si ottiene in modo clandestino, con la conseguenza che il titolare di tale posizione di fatto è legittimato a proporre querela, essendo qualificabile come persona offesa dal reato.

L’oggetto giuridico del reato non deve essere confuso con l’oggetto materiale dello stesso, cioè con l’entità materiale, persona o cosa, sulla quale ricade concretamente la condotta posta in essere dall’agente. Così, nel reato di furto ex art. 624 c.p. l’oggetto materiale è la “cosa mobile altrui” sottratta al proprietario o possessore che passa, anche per un brevissimo lasso di tempo e nello stesso luogo in cui la sottrazione sia avvenuta, sotto il dominio esclusivo del reo. In via del tutto logica, ne deriva che l’oggetto materiale del furto debba necessariamente essere suscettibile di sottrazione e indebito impossessamento, intesi come spoliazione e trapasso della res dalla sfera giuridica del detentore a quella dell’agente.

La ricostruzione dell’iter logico seguito dai giudici di legittimità nel fornire una risposta al quesito di cui sopra impone di soffermarsi sul concetto di “cosa mobile”, quale elemento oggettivo del reato di furto, partendo dalla distinzione tra la nozione civilistica di “cosa” e quella penalistica di “cosa mobile”.

  1. La nozione di “cosa” nel diritto civile. La nozione civilistica di “cosa” può facilmente desumersi dalla norma di cui all’art. 810 c.c., a tenore del quale “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”, aventi le caratteristiche dell’utilità, dell’accessibilità e della limitatezza. La “cosa” costituisce l’oggetto indispensabile del bene e va quindi intesa in senso molto ampio, al pari della “res” nel diritto romano che involge svariati concetti, dalle entità materiali (res quae tangi possunt) a quelle immateriali (res quae tangi non possunt).

In una prospettiva civilistica, la categoria delle cose ricomprende unicamente quelle che possono cadere nel potere del soggetto che ne dispone e che siano idonee a soddisfare qualsiasi bisogno dell’individuo. Di preciso, non è indispensabile che la “cosa” sia sottoposta alla signoria di qualcuno, essendo sufficiente che la stessa risulti suscettibile di esserlo. Altresì, non è necessario che la “cosa” venga percepita a livello sensoriale come sostanza corporea (res corporalis), potendo benissimo costituire un’entità concepibile con l’intelletto (res incorporalis).

  1. Le forze naturali, come l’energia elettrica, considerate come “cosa mobile” ai fini penali. Il diritto penale fornisce una prima indicazione della “cosa mobile” attraverso il testo dell’art. 624, co. 2, c.p. Invero, agli effetti della legge penale, è considerata “cosa mobileanche l’energia elettrica o energia di altra natura che abbia un valore economico (e non la luce o l’acqua, perché non suscettibili di appropriazione). Le motivazioni dell’inserimento di questo capoverso, espresse nella Relazione di accompagnamento ai lavori preparatori del Codice penale[3], muovono implicitamente dalla premessa secondo cui la “cosa mobile” debba essere dotata di una certa “corporeità” e dalla conseguenza logica che possano essere oggetto delle condotte tipiche dei delitti contro il patrimonio solo quelle energie idonee ad essere “apprese e godute dall’uomo con profitto proprio e danno altrui[4].

Il concetto di “cosa mobile” che rileva ai fini penali involge qualsiasi cosa, intesa come oggetto corporeo o entità materiale, che può essere materialmente spostata da un luogo all’altro e, in definitiva, sottratta. Per esclusione, costituisce “cosa immobile” la cosa non mobile. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità[5] ha ribadito il principio secondo cui, agli effetti penali, nella distinzione tra cosa mobile e immobile non occorre far riferimento ai principi civilistici, quanto alla condotta criminosa, per cui rientra nel concetto di “cosa mobile” ogni cosa passibile di sottrazione e impossessamento, cioè tutte le cose di per sé mobili o che possono essere mobilizzate anche attraverso l’esercizio fisico dell’agente, quali i beni costituenti pertinenze di un complesso immobiliare, come alberi, cancelli, che la legge civile assoggetta al regime immobiliare, ma che rilevano ai fini del furto ex art. 624 Codice penale.

La nozione penalistica di “cosa mobile” non coincide infatti con quella civilistica, rivelandosi per certi aspetti più ridotta e, per altri, più ampia: è più ridotta laddove non considera cose mobili le entità immateriali, come le opere dell’ingegno e i diritti soggettivi che, invece, l’art. 813 c.c. assimila ai beni mobili; è più ampia, laddove comprende beni che, originariamente appartenenti alla categoria dei beni immobili o costituenti pertinenze di un complesso immobiliare siano mobilizzati (teoria della “mobilizzazione), divenendo asportabili e, pertanto, potenzialmente oggetto di sottrazione e impossessamento.

  1. Il concetto di file nella terminologia informatica. Prima di mettere a confronto l’impostazione della dottrina con l’evoluzione giurisprudenziale in tema di qualificazione dei files come “cosa mobile” suscettibile di essere oggetto di furto giova preliminarmente fornire la nozione informatica di file comunemente accolta.

Il termine file trae origine dalla lingua inglese ed è traducibile come “archivio”, ma comunemente viene chiamato “documento”. Nella terminologia informatica, indica un insieme di informazioni e dati in formato digitale, archiviati o elaborati, tipicamente presenti su un supporto digitale di memorizzazione opportunamente formattato in un file system, che ha il compito di consentire agli utenti di poter accedere ai documenti. In altri termini, ogni singolo oggetto archiviato in memoria di massa viene definito file. Un file può essere progettato per memorizzare un programma eseguibile, un documento di testo, un’immagine, un filmato, un audio, una pagina Web e tanto altro ancora.

Per consentire di aprire, leggere, modificare e chiudere un determinato tipo di file occorre necessariamente utilizzare un apposito software compatibile con quella particolare tipologia di file. La natura di un file viene in genere associata all’estensione che possiede lo stesso, misurabile in byte e intesa come una breve sequenza di caratteri alfanumerici, tipicamente in numero di tre, posta alla fine del nome di un file. L’estensione del file, comunemente nascosta, consente al sistema operativo in uso di distinguerne sia il tipo di contenuto, che può essere un testo, un video, musica o altro, sia il formato utilizzato per aprirlo.

  1. L’impostazione della dottrina sulla qualificazione del file come “cosa mobile”. In tema di documenti informatici, l’orientamento maggioritario della dottrina ritiene che il file non possegga i caratteri della “fisicità, tipici della nozione penalista di “cosa mobile” che, come suesposto, guarda alla condotta tipica di sottrazione e di impossessamento e ingloba in sé tutte le cose che possono essere mobilizzate, quindi spostate da un luogo all’altro attraverso l’esercizio fisico. La radice del dissenso si ricava dalla difficoltà per la dottrina di aderire alla c.d. teoria della mobilizzazione, ritenuto il file privo della capacità di materiale apprensione.

Le più accreditate correnti dottrinali hanno ritenuto che i files non possano essere considerati entità astratte, bensì entità dotate di un propria “fisicità”, in quanto essi occupano nello spazio una porzione di memoria quantificabile e subiscono spesso operazioni, quali la creazione, la copiatura o l’eliminazione. Attraverso questi elementi descrittivi, la dottrina è giunta ad una prima conclusione che consente di ritenere il file come un documento avente la sua dimensione fisica, posto che, pur non essendo il file materialmente percepito attraverso i sensi, esso ricopre uno spazio in natura dato dalla grandezza dei dati che lo compongono. A sostegno di questa tesi si pone l’esistenza di un’unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati, nonché la presenza di supporti fisici di diverse grandezze in cui i files stessi possono essere conservati.

  1. L’evoluzione giurisprudenziale sulla riconducibilità del file alla nozione di “cosa mobile”. In prima battuta, anche la giurisprudenza di legittimità[6] si è mostrata restia alla possibilità di qualificare i dati informatici come cose mobili oggetto di furto. Questo perché la semplice “copiatura” non autorizzata di files presenti in un supporto informatico altrui non configurerebbe la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore, dunque la sottrazione penalmente rilevante ex art. 624 c.p. La condotta tipica del reato di furto è quella dello spostamento materiale di una cosa dalla sfera giuridica del proprietario o possessore a quella del reo e la particolare natura dei documenti informatici rappresenterebbe un ostacolo logico alla realizzazione dell’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice in esame.

L’indagine ermeneutica finalizzata alla riconducibilità dei files alla nozione di “cosa mobile” parte dalla riflessione sulla capacità di materiale apprensione del dato informatico, quindi dalla possibilità di attribuire al file il requisito della disponibilità materiale.

Tra i presupposti che la tradizione giuridica riconosce come necessari per ravvisare le condotte di sottrazione e impossessamento della “cosa mobileex art. 624 c.p. rientra quello della necessaria detenzione fisica della res. Ai sensi dell’art. 624 c.p., sia il proprietario che il possessore della “cosa mobile” sono considerati persone offese dal reato, perché l’attività che rileva penalmente è quella diretta a spogliare sia il titolare di diritto che quello di fatto dalla possibilità di esercitare il proprio dominio sulla cosa. Ne deriva che la condotta tipica di sottrazione deve presupporre la necessaria disponibilità del bene da parte dei soggetti titolari, oltre che la “corporeità” della cosa, che consente la materiale apprensione della stessa e, quindi, il relativo spostamento finalizzato all’impossessamento.

L’attuale contesto storico mette in luce il mutato panorama delle attività che il singolo è in grado di svolgere mediante le apparecchiature informatiche e ciò determina il bisogno di riconsiderare i criteri utilizzati per la definizione di “file che non può restare immutata nel tempo.

In questa prospettiva, il più recente orientamento giurisprudenziale ha riconosciuto al file la capacità di essere trasferito da un supporto informatico ad un altro, mantenendo i propri elementi strutturali, così come la capacità dello stesso di viaggiare attraverso la rete Internet per essere inviato da un dispositivo all’altro, anche a distanze rilevanti. Negli usi più frequenti della tecnologia e dell’informatica viene altresì in rilevo l’attitudine dei files ad essere custoditi in ambienti virtuali, corrispondenti a luoghi fisici in cui gli elaboratori trattano i dati informatici.

Sulla stessa linea interpretativa, una recente pronuncia[7] della Corte di Cassazione ha affermato che i documenti informatici possano essere oggetto di furto ex art 624 c.p., riconoscendo la responsabilità penale ad un soggetto che si era impossessato di alcuni “files” cancellandoli dal “server” dello studio professionale ove il medesimo esercitava la libera professione, previa copiatura degli stessi sul proprio dispositivo informatico.

Ciò ha comportato un mutamento dell’orientamento ormai consolidato in tema di qualificazione del file come “cosa mobile” suscettibile di essere oggetto di furto, sollevando un dubbio in merito alla corretta qualificazione giuridica del fatto descritto poc’anzi.

Dalla lettura dell’art. 624 c.p. appare ictu oculi che il reato di furto abbia il requisito della “cosa mobile” in comune con il delitto di appropriazione indebita. La norma di cui all’art. 646 c.p. stigmatizza la condotta del soggetto che si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, la materiale disponibilità, al fine di percepire un ingiusto vantaggio. Il discrimine tra le due fattispecie incriminatrici si coglie nel preesistente possesso[8] della cosa mobile altrui da parte del soggetto attivo del reato ex art. 646 c.p., cioè da una situazione di fatto che si concretizza nell’esercizio di un potere di autonoma disponibilità sulla cosa, mancante nell’ipotesi di furto di cui all’art. 624 Codice penale.

Sicché, qualora la condotta si realizzasse mediante l’acquisizione di dati informatici di cui si abbia la materiale disponibilità – previa duplicazione e successiva cancellazione – con definitiva sottrazione dei files (entranti a far parte in via esclusiva del patrimonio del reo) sussisterebbe il reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. e non l’ipotesi di “furto di informazioni” configurabile, invece, nel caso in cui l’agente si procurasse sostanzialmente un mezzo per acquisire la conoscenza delle informazioni contenute nei files, lasciando gli stessi nella disponibilità materiale e giuridica del titolare. Valutazione,   questa, che ha indotto il legislatore, nel corso del procedimento di discussione ed approvazione della legge 23 dicembre 1993, n. 547[9], ad escludere l’applicazione dell’art. 624 c.p. per le condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni, considerando la sottrazione stessa come una «presa di conoscenza di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti»[10].

A conferma di ciò, una recentissima pronuncia[11] della Corte di Cassazione ha qualificato i files come cose mobili attribuendo rilevanza penale ex art. 646 c.p. (e non ex art. 624 c.p.) alla condotta di sottrazione da un personal computer aziendale dei dati informatici ivi collocati, con successiva cancellazione degli stessi – previamente duplicati – e restituzione del computerformattato”. In questa occasione, la Corte ha riconosciuto la “fisicità del file, posto che il documento informatico occupa uno spazio (di memoria) misurabile in byte e può essere trasferito da un luogo all’altro attraverso la rete Internet. In più, a parere dei giudici di legittimità, il file, anche se privo dei requisiti della materiale apprensione e della tangibilità (salvo che esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), è un bene dotato di valore patrimoniale e rappresenta ugualmente una “cosa mobile” suscettibile di essere oggetto di diritti penalmente tutelati.

  1. Dottrina e giurisprudenza: lo standard garantistico delle due impostazioni messo a confronto. Alle luce delle argomentazioni suesposte risulta evidente che se da un lato l’impostazione della dottrina maggioritaria circoscrive una precisa area del penalmente lecito, escludendo dal concetto di “cosa mobile” tutte quelle entità prive di “fisicità”, dall’altro lato, l’evoluzione giurisprudenziale in tema di qualificazione del file come “cosa mobile” suscettibile di essere oggetto di delitti contro il patrimonio solleva qualche dubbio in relazione ai principi che reggono il diritto penale, quali il principio di legalità, come accolto dall’art. 25, co.2, Cost., nel suo principale corollario del rispetto del principio di determinatezza, quindi del principio di prevedibilità.

Com’è noto, secondo la giurisprudenza CEDU, il principio di prevedibilità della norma penale concerne sia il momento formativo della disposizione sia quello interpretativo della stessa. Per quel che attiene alla tecnica di elaborazione della norma penale, il principio di prevedibilità presuppone la determinatezza della fattispecie incriminatrice, intesa come chiara e precisa definizione della legge[12] – che consente al singolo di conoscere la proposizione precettiva e orientarsi verso l’area del penalmente lecito -, mentre il secondo momento concerne l’interpretazione che i giudici forniscono al precetto in un determinato momento storico.

Quanto al principio di determinatezza, la Corte Costituzionale[13] ha puntualizzato che lo stesso non si limita alla produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate – garantendo così la conformità dell’attività giurisdizionale alla legge -, ma assicura a chiunque una percezione sufficientemente chiara ed immediata degli eventuali profili di illiceità penale della condotta posta in essere. Quindi, se è vero che la legge necessita di essere interpretata, la stessa interpretazione non può mai surrogarsi a quanto già disposto dal legislatore, atteso che la legalità formale intende garantire ai consociati la “sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione[14] attraverso la prevedibilità della norma penale e la calcolabilità della pena. In tal senso, anche la giurisprudenza nazionale[15] ha osservato che una stabile tradizione interpretativa, solo se esercitata nel rispetto del principio di legalità, può confluire a conformare le norme assicurando così al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti che per l’ordinamento.

Ancora in tema di determinatezza della norma penale, una notevole sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito il predetto concetto, affermando che “si può considerare legge solo una norma enunciata con una precisione tale da permettere al cittadino di regolare la propria condotta”; lo stesso, pertanto, “deve essere in grado di prevedere, con un grado ragionevole di approssimazione in rapporto alle circostanze del caso, le conseguenze che possono derivare da un atto determinato[16].

Il legislatore nazionale recepisce il concetto di determinatezza come necessità che nelle norme penali vi sia un chiaro riferimento a fenomeni che appaiano verificabili, non potendo l’ordinamento concepire disposizioni legislative che inibiscano o puniscano fatti inesistenti in natura o non razionalmente accertabili. A tal proposito, la Corte costituzionale[17] ha precisato che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”» – cioè indeterminati, benché determinabili – «non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice di stabilire il significato di tale elemento: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo».

La qualificazione del file come “cosa mobile” suscettibile di essere oggetto di delitti contro il patrimonio è messa in dubbio in particolar modo rispetto al principio di tassatività che governa l’attività interpretativa giurisdizionale (corretta sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta), posto che l’utilizzo in sé di termini generici come “cosa mobile” non comporta necessariamente una violazione del principio di determinatezza, ma la creazione giurisprudenziale potrebbe rappresentare un elemento di pericolo, legittimando interpretazioni estensive oltre il confine dell’analogia.

Il “diritto vivente” andrebbe così a segnare il confine tra il lecito e l’illecito, superando il sacrosanto principio di legalità, di cui agli artt. 25, co. 2, Cost.; 1, 199 Codice penale, che riserva al legislatore le scelte di politica criminale (c.d. monopolio legislativo). Legislatore che ha ritenuto – come emerge nella Relazione al disegno di legge n. 2773[18] – esclusi dal concetto di “cosa mobile” i dati informatici, salvo l’ipotesi remota che gli stessi siano situati su un supporto materiale. Oltretutto, un repentino mutamento dell’orientamento giurisprudenziale (c.d. fenomeno di overruling) confonderebbe il singolo nella sua libertà di autodeterminazione, esponendolo al pericolo di essere perseguito penalmente e sottoposto a misure di restrizione della libertà personale per una norma e una pena non ritenute applicabili al momento del fatto.

  1. Osservazioni conclusive. Il progresso in ambito tecnologico, informatico, sociale influenza sensibilmente le scelte di politica criminale e, in particola modo, ildiritto vivente”, sicché, in tale prospettiva, il furto può considerarsi come esito di una scelta, sociale prima ancora che giuridica, di sanzionare quei comportamenti lesivi di valori e interessi meritevoli di tutela. Il furto, come fatto sociale, necessita di essere osservato all’interno delle dinamiche dei rapporti economici-sociali e questo ha fatto sì che il concetto di “file” sia variato nel tempo e si sia adeguato alle odierne attività che il singolo è in grado di svolgere mediante le apparecchiature informatiche. Tali ragioni hanno condotto la giurisprudenza ad estendere la nozione di “cosa mobile” finanche ai files, ampliando la portata applicativa delle norme di cui agli artt. 624, 646 Codice penale, ma, al contempo, esponendo i consociati ad un mutamento giurisprudenziale non ragionevolmente prevedibile.

 

[1] Mantovani, Diritto penale, 206.

[2] Cassazione Penale, Sezioni Unite, sentenza n. 40354 del 30/09/2013.

[3] cfr. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale. Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del guardasigilli On. Alfredo Rocco, vol. V, parte II, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1929, 439: «a giustificare una esplicita dichiarazione legislativa sulla soluzione da dare all’importante dibattito, stia la constatazione che in dottrina sono tuttora contro la tesi accolta dalla giurisprudenza autorevoli scrittori, i quali sostengono che l’utilizzazione illegittima di energia, senza l’impossessamento della materia da cui pervengono o in cui sono accumulate, non può costituire il delitto di furto. Sono quegli scrittori, che ritengono essere le forze naturali, come l’energia elettrica, utilità speciali provenienti dalla cosa, non cose aventi entità materiali autonome».

[4] Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 440.

[5] Cassazione Penale, Sezione II, sentenza n. 20647 del 11/05/2010, Corniani.

[6] Cassazione Penale, Sezione IV, sentenza n. 44840 del 26/10/2010, Petrosino: «è da escludere la configurabilità del reato di furto nel caso di semplice copiatura non autorizzata di “files” contenuti in un supporto informatico altrui, non comportando tale attività la perdita del possesso della “res” da parte del legittimo detentore», i giudici di legittimità, pur avendo precisato che la condotta non possa dirsi perfezionata nel caso di “semplice copiatura non autorizzata dei file”, non esitano a rilevare come «una tale interpretazione trova conferma nella esplicita volontà del Legislatore che nella Relazione al disegno di legge n. 2773 ha espressamente precisato che la condotta di sottrazione di dati, programmi, informazioni di tal genere non è riconducibile alla norma incriminatrice sul furto, in quanto i dati e le informazioni non sono comprese nel concetto, pur ampio, di “cosa mobile” in essa previsto; ed ha ritenuto altresì “non necessaria la creazione di una nuova ipotesi di reato osservando che la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati  sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una “presa di conoscenza” di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti»; Cassazione Penale, Sezione IV, sentenza n. 3449 del 13/11/2003, dep. 2004, Grimoldi: «Indipendentemente da ogni altra argomentazione, è inevitabile considerare che la copiatura dei files da CD o da HD (compact-disk o hard-disk) in altro non consiste se non in una “duplicazione” di tali files (analoga al risultato di un procedimento fotografico, se pure tecnicamente cosa ben diversa), tanto che i files in possesso del detentore del CD o del computer sul quale sia installato l’hard-disk contenenti i files rimangono memorizzati sul medesimo supporto sul quale si trovavano, mentre di essi il soggetto, presunto agente nel reato di furto, entra in possesso di un copia, senza che la precedente situazione di fatto (e giuridica) venga modificata a danno del soggetto già possessore di tali files».

[7] Cassazione Penale, Sezione V, sentenza n. 32383 del 19/02/2015, Castagna, Rv. 264349.

[8]cfr. F. MANTOVANI, voce Furto, 366; C. PEDRAZZI, voce Appropriazione indebita, 833: «La condotta di appropriazione consegue, necessariamente, ad una situazione possessoria iniziale».

[9] Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica (GU Serie Generale n.305 del 30-12-1993).

[10] Relazione al disegno di legge n. 2773.

[11] Cassazione Penale, Sezione II, sentenza del 10/04/2020, n. 11959 (ud. 7 novembre 2019), Pres. Cammino, rel. Di Paola, ric. Carluccini.

[12] Nel Diritto Editore, “Accessibilità a prevedibilità delle norme penali. Corte EDU, 23 febbraio 2017, De Tomaso c. Italia” in I nuovi Manuali Superiori diretti da G. Alpa e R. Garofoli, Manuale di diritto penale Parte Generale, XV Edizione 2018/2019, 46.

[13] Corte costituzionale, sentenza del 10 aprile 2018, n. 115 (caso Taricco).

[14] Corte costituzionale, sentenza del 10 aprile 2018, n. 115: in altri termini, «diversamente da quanto accade con la regola Taricco», una scelta relativa alla punibilità deve essere sempre autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso.

[15] Cass. sez. un., n. 37954 del 2011: «Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto, un «termine» che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione «tecnica», dovrebbe presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacché il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l’uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività. Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che autorevole dottrina definisce «una giustificazione conveniente», per «segni certi», della diversa accezione. Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull’interpretazione delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle «finalità perseguite dall’incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca», come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell’offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004).

Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d’altra parte confluire a conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che, come efficacemente ricordato dall’Avvocato Generale nella requisitoria odierna richiamando copiosa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (tra molte: sentenze 5 aprile 2011, Sarigiannis c. Italia; 17 maggio 2010, Kononov c. Estonia; 3 novembre 2009, Sujagic c. Bosnia-Erzegovina), costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per l’ordinamento obiettivo: anche l’effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati».

[16] Corte, 26 aprile 1979, Sunday Times c. Regno Unito, cit., par. 49; Commissione, dec. 7 maggio 1982, X Ltd. e Y c. Regno Unito, cit., 86.

[17] Corte costituzionale, sentenza n. 25 del 2019, riprendendo le enunciazioni delle precedenti decisioni n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004.

[18] Cfr. Disegno di legge n. 2773 presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia (Conso). Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica, in legislature.camera.it, p. 2773: «Anzitutto, trovano già riscontro all’interno del codice penale le condotte di impossessamento aventi ad oggetto cose materiali attinenti ai sistemi informatici; e, quindi, parte dell’hardware o del software, considerati nella loro materialità. A tali comportamenti, infatti, appare applicabile la norma incriminatrice sul furto (art. 624 c.p.).

Non così, invece, per le condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni. In tali casi, l’art. 624 del codice penale appare di dubbia applicabilità, pur nell’ampio concetto di “cosa mobile” da esso previsto: stando alla definizione contenuta nel secondo comma di tale disposizione, l’estensione del concetto non va oltre le “energie” (tra cui quella elettrica) aventi valore economico, tra le quali i dati o le informazioni non sono sussumibili.

Del resto, la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una “presa di conoscenza” di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti