di Antonio Cavaliere

 

Le immagini scioccanti e le ulteriori inquietanti notizie sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – al di là dell’accertamento delle responsabilità penali, per il quale devono valere, senza cedimenti, le garanzie del giusto processo e la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art.27 co.2 della nostra Costituzione – sono solo l’ennesima testimonianza dell’insufficienza dei rimedi finora apprestati contro le violenze perpetrate da appartenenti alle forze dell’ordine su persone sottoposte alla loro autorità, e della necessità di interventi radicali in materia.

Il giurista ha il dovere di rammentare ai non addetti ai lavori che l’art.13 della Costituzione – con cui si apre la prima parte della stessa, relativa a “Diritti e doveri dei cittadini” – dopo aver sancito che “la libertà personale è inviolabile”, al quarto comma prescrive: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Si tratta dell’unica norma dell’intera Costituzione che ponga espressamente un obbligo di intervento penale; segno inequivocabile di un rovesciamento della precedente visione autoritaria dei rapporti tra persona e Stato, tra individuo e forze dell’ordine. Ed è bene ricordare che, secondo il consolidato orientamento della Corte costituzionale, i diritti inviolabili della persona valgono per ogni essere umano, cittadino o straniero che sia.

In materia di pene, l’art.27 co.3 Cost. stabilisce inoltre che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e, prosegue, “devono tendere alla rieducazione del condannato”. La prima parte della norma, dunque, prima ancora di affermare che la pena “deve” mirare all’obiettivo del reinserimento sociale di ogni persona condannata – nessuna esclusa! –, sancisce il dovere di umanità in ogni fase dell’intervento penale, dalla previsione legislativa fino all’esecuzione della sanzione.

Ciò che vale per le pene, deve naturalmente valere per ogni sanzione sostanzialmente penale: in particolare, per misure di sicurezza come gli ex ospedali psichiatrici giudiziari – si ricordino le rivoltanti immagini relative all’inchiesta della Commissione del Senato sugli O.p.g., agevolmente reperibili online -, ora denominati “residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (r.e.m.s.). E, naturalmente, lo stesso deve valere pure per le misure cautelari penali e segnatamente per la custodia in carcere o per un ricovero provvisorio in una r.e.m.s. Inoltre, a mio avviso, è sostanzialmente penale, al di là di tartufesche frodi delle etichette, pure la detenzione dei migranti nei Centri di permanenza per il rimpatrio o in altre strutture; la disciplina normativa e la realtà applicativa di tale forma di detenzione si pongono attualmente al di fuori della legalità costituzionale e violano i diritti dell’uomo.

Ma anche in rapporto ai cosiddetti trattamenti sanitari obbligatori (t.s.o.), l’art.32 co. 2 Cost. sancisce che la legge, che – sola fonte legittimata al riguardo – può prevederli, “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La dignità umana del sofferente psichico è inviolabile quanto quella dei cosiddetti ‘sani di mente’, che non insovente danno eloquente testimonianza della loro salute mentale teorizzando e praticando la ‘cura’ dell’elettrochoc o legando per giorni un paziente ad un letto di contenzione, fino a cagionarne talvolta la morte!

A ben vedere, tutte le disposizioni ricordate non sono che specificazioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione, che sanciscono, rispettivamente, il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili, art.2, e la “pari dignità sociale” ed eguaglianza dei diritti fondamentali di ogni essere umano, art.3. Si tratta di specificazioni necessarie, laddove la persona è sottoposta alla pubblica autorità, che può perpetrare offese non meno gravi di quelle che possono essere realizzate da privati, con l’aggravante, però, dell’abuso di una posizione istituzionale di potere e di forza.

Tornando ai provvisori resoconti dei fatti di Santa Maria C.V., emerge un numero impressionante di agenti delle forze dell’ordine coinvolti nelle violenze; ed è desolante vedere quella sorta di caravaggesca gara di decine di poliziotti in divisa nella fustigazione di detenuti a suon di ceffoni, calci, manganellate, o la coazione a stare inginocchiati o spalle al muro… Un’operazione programmata con l’etichetta di perquisizione – la stessa etichetta usata alla scuola Diaz a Genova nel 2001 –, per la quale pare sano stati chiamati rinforzi con personale esterno – altra analogia -, e che diventa violenza gratuita perfino su un detenuto in sedia a rotelle. Ed ancora, aleggiano ombre sulle responsabilità dei superiori, quanto meno per omesso controllo; e tra le ipotesi dell’accusa vi sono falsificazioni di atti e condotte di favoreggiamento, commesse da appartenenti alle forze dell’ordine. Anche qui, un copione purtroppo non nuovo.

Nel frattempo, altri procedimenti penali sono in corso per violenze perpetrate da appartenenti alle forze dell’ordine in alcune carceri italiane. E tanti altri casi di violenze addirittura omicide commesse altrove, in caserme e comandi o per strada, sono ormai tristemente noti, da Cucchi ad Aldrovandi ad Uva; un’ampia casistica si può trovare nel volume “Quando hanno aperto la cella” di Manconi e Calderone.

Insomma, si tratta di un fenomeno purtroppo diffuso, che a volte colpisce singoli, altre volte addirittura moltitudini di persone. Le vittime di queste violenze sono per lo più gli ‘altri’, nel senso di quelle “vite di scarto” (Bauman) che assumono le sembianze del delinquente o sospetto tale, del migrante irregolare, del sofferente psichico “pericoloso per sé o per altri”, del tossicodipendente o alcolizzato, oppure anche del ‘disobbediente’ che manifesta pacificamente il proprio dissenso (si ricordino, oltre ai fatti di Genova, quelli verificatisi a Napoli nel marzo 2001 in occasione del Global forum, in particolare nella caserma Raniero). Ma talvolta le violenze perpetrate da appartenenti alle forze dell’ordine colpiscono pure qualche malcapitato che semplicemente ‘non doveva stare lì’, o, addirittura, pretendeva di esercitare la professione di giornalista e/o di fotografare o filmare.

Quelle ‘vite di scarto’ sono vittime di una mentalità, di un’incultura, anch’essa purtroppo diffusa, che le vede quali non-persone, quali disturbatori e quindi ‘nemici’ dell’ordine pubblico e della sicurezza: un’endiadi il cui primato culturale nella comunicazione mediatica, politica e giudiziaria riflette una torsione autoritaria collettiva. L’ordine pubblico e la sicurezza prevalgono sulle ‘vite degli altri’ e legittimano culturalmente la violenza sulla persona, se è volta, appunto, a ristabilire l’ordine e la sicurezza. Il ricorso a slogan quali law and order e zero tolerance sancisce la regressione al primato dell’autorità sull’individuo e relega i diritti della persona a fastidiosi e disfunzionali orpelli, da superare sulla strada di una ‘democrazia illiberale’: uno spettro che aleggia, purtroppo, anche in Europa e in Italia.

Il bisogno emotivo collettivo di sicurezza finisce per dar luogo, nei confronti di quegli ‘altri’, ad una sorta di logica premoderna del “versari in re illicita”: delinquenti, irregolari, tossicodipendenti, disobbedienti, hanno violato le regole e, per ciò solo, perdono ogni diritto, diventano capri espiatori su cui sfogare le frustrazioni – esistenziali e/o lavorative – e le pulsioni vendicative individuali e collettive.

Ma così, negando agli ‘altri’ i diritti fondamentali, si può arrivare a Guantanamo e al ricorso sistematico alla tortura, talora persino ostentato – si ricordino le immagini ributtanti dell’uomo messo al guinzaglio come un cane, e di un altro legato a fili elettrici sotto un cappuccio nero, nel carcere iracheno di Abu Ghraib -; talora, invece, coperto dal segreto di Stato – si pensi al caso Abu Omar e alle extraordinary renditions -, oppure ‘solo’ occultato da una prassi di polizia ispirata all’idea secondo cui il fine giustifica i mezzi. Una prassi che ripropone lo stereotipo del poliziotto – o, talora, anche del magistrato inquirente – che a fin di bene, vale a dire in nome della ‘lotta’ al crimine e per la sicurezza, può violare le regole: anche quelle poste dalla Costituzione a tutela dei diritti della persona. Oppure, ancora, si può arrivare, sul piano legislativo e della prassi, a certe forme esasperate di carcere duro, al limite della tortura, che vanno ben al di là di legittime esigenze di contrasto della criminalità organizzata mediante la limitazione dei contatti con l’esterno.

Negando agli ‘altri’ i diritti fondamentali, si può arrivare anche oltre: si può uccidere alle spalle il ladro che abbandona la refurtiva e scappa; si può sparare su migranti inermi dalla nave della Guardia costiera…

Quanto diffusa sia una tale incultura, che esclude ‘gli altri’ dalle garanzie costituzionali, dalla dignità umana che deve invece – se vogliamo, noi, restare umani – rimanere inviolabile in chiunque, lo dimostrano le dichiarazioni populistiche di Salvini e di altri politici reazionari, la cui reazione a notizie circa indagini relative a violenze di polizia – salvi parziali révirements quando ci si avvede che il re è proprio nudo – è di difesa a priori delle forze dell’ordine. Quelle dichiarazioni  mirano a riprodurre un consenso la cui consistenza in termini percentuali desta forte preoccupazione e deve indurre a correre urgentemente ai ripari, prima che sia troppo tardi per lo stato di diritto.

Alla radice di quel consenso vi è, in misura a mio avviso rilevante, una grave insicurezza sociale, che, secondo ben noti processi di psicologia sociale, si scarica attraverso pulsioni repressive; così, sotto altro profilo, la stessa globalizzazione, per le forme problematiche e non di rado inique che ha assunto, genera insicurezza e reazioni ‘sovraniste’ a corto circuito, che costituiscono risposte irrazionali e fuorvianti a problemi reali. Ma, allora, quel consenso e quelle pulsioni autoritarie vanno contrastate anzitutto fornendo risposte sul piano dei fattori socioeconomici del malessere, ovvero in chiave di giustizia economico-sociale. Sul piano culturale, ciò significa non solo proclamare in teoria, ma anche operare nella prassi per la tutela dei diritti di tutti e specialmente per la solidarietà sociale, imposta dall’art.2 Cost., e per la rimozione degli ostacoli che impediscono ai più deboli l’effettivo esercizio dei diritti fondamentali in condizioni di eguaglianza, prescritta dall’art.3 co.2 Cost.

Coloro che invocano o addirittura praticano la violenza punitiva, istituzionale o ‘informale’ – cioè, ad esempio, quella praticata dal bullo che dà fuoco al senzatetto o dall’omofobo che picchia l’omosessuale – se la prendono con gli altri, i brutti, sporchi e cattivi; ma tendono minacciosamente ad ampliare sempre più la cerchia degli ‘altri’, includendo ad esempio, appunto, accattoni – si pensi al dacur, impropriamente detto daspo urbano, e al reintrodotto reato di accattonaggio – e persone che hanno un orientamento sessuale diverso dal proprio. E questi discorsi e pratiche d’odio sono alla perenne ricerca di nuovi bersagli via via diversi, come mostra la quotidianità del web.

Ma a coloro che se la prendono con gli ‘altri’ bisogna sempre rispondere che, quando si nega la dignità umana dell’altro, prima o poi toccherà a noi: perché si è sempre l’‘altro’ di qualcuno. Viviamo ancora in tempi di discriminazione di genere; ma bisogna ricordarsi che fino alle elezioni del 1946 le donne, in quanto ‘altre’, non potevano neppure votare. Gli oppositori politici, sotto il fascismo, andavano al confino o in galera. E tutto ciò avveniva, secondo la retorica del tempo, a fin di bene, di ‘ordine’ e ‘sicurezza’. E a fine di ‘ordine’ e difesa della stirpe c’erano, anche in Italia, leggi razziali e lager. Deutschland (e, decisamente in subordine, Italien) über alles. Oggi si dice “prima gli italiani”. E per fortuna non ci sono più i Konzentrationslager, i campi di concentramento nazisti, ineguagliabile atrocità del passato. Ma ci sono, purtroppo, i campi di detenzione libici e in Italia – ma anche in altri Paesi europei – c’è il trattenimento sedicente ‘amministrativo’ dei migranti, che ogni tanto, con un pacchetto chiamato guarda caso ‘sicurezza’, si cerca di estendere.

La demagogia autoritaria si alimenta dell’idea di difendere il ‘bene’: san Giorgio deve vincere sul drago e il fine giustifica i mezzi. Del resto, l’inquisizione e la stessa tortura sono nate a fin di bene, ad veritatem eruendam… Chi denuncia le violenze delle forze dell’ordine si sente, quindi, obiettare che si sta facendo il processo alle forze dell’ordine, come se il problema in Italia fosse la polizia, mentre il problema è la delinquenza, è l’immigrazione irregolare, etc. Ma il punto è che nel nostro ordinamento le forze di polizia sono soggette alla legge e alla Costituzione, come tutti i cittadini e tutti i titolari di pubblici poteri; lo stabiliscono, in particolare, l’art.54 e l’art. 28 Cost., secondo cui “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”. Teniamocela stretta, questa Costituzione! Quando funzionari e agenti delle forze dell’ordine violano la legge e la Costituzione stessa, in quel preciso istante essi cessano di rappresentare il ‘bene’; perdono la loro santità e diventano anch’essi dei draghi (con la minuscola).

Non si tratta di affermare una sorta di indulgenzialismo, debole verso i delinquenti, gli irregolari ed altri soggetti asseritamente pericolosi. Si tratta, invece, di garantire che la forza pubblica, conformemente alla Costituzione, protegga i diritti di tutti. E solo tutelando con forza i diritti di tutti e specialmente dei più deboli – magari proprio perché già sottoposti a limitazioni di libertà – lo Stato riafferma la propria autorevolezza nella tutela dei diritti umani: con quale credibilità, altrimenti, si chiederà il rispetto dei diritti umani ad ordinamenti scopertamente autoritari? È sotto gli occhi di tutti il gravissimo discredito internazionale che deriva da fatti come quelli di Genova 2001 o, oggi, dalle immagini delle violenze sui detenuti. L’autorevolezza e la forza dello stato di diritto consistono nel contrastare anche i più gravi fenomeni criminali nel pieno rispetto della persona. Qui non siamo a Guantanamo, in un carcere turco o egiziano o sotto una dittatura cinese; qui siamo in uno stato costituzionale di diritto. Altrimenti siamo perduti.

A questo punto, come recita un detto tedesco, chi dice A, deve dire B.

Non basta indignarsi. Bisogna approntare ed applicare strumenti normativi che prevengano ed impediscano effettivamente gli abusi e le violenze alla persona da parte della pubblica autorità.

Occorre peraltro guardarsi da un errore tanto grave quanto ricorrente: quello di invocare, ad ogni reale o supposta emergenza, nuove norme incriminatrici, ampliamento di quelle esistenti – ad esempio del reato di tortura  -, ulteriori inasprimenti delle sanzioni penali. Una tale reazione riproporrebbe, sotto altre vesti, e come sempre ‘a fin di bene’, l’esaltazione del rigorismo repressivo, stavolta rivolto verso il tipo d’autore del poliziotto violento.

Ma i principi costituzionali del diritto penale – in particolare la determinatezza e tassatività della fattispecie, la proporzione tra il fatto commesso e la sanzione penale, la personalità della responsabilità penale, il finalismo rieducativo – rappresentano garanzie che devono valere per tutti: così come, ripeto, devono valere per tutti le garanzie processuali stabilite dalla Costituzione. Per altro verso, sul piano dell’effettività, i recenti accadimenti dimostrano in modo piuttosto evidente che la sola minaccia di gravi sanzioni penali e, più in generale, il solo intervento punitivo rischiano di risultare risposte meramente apparenti, simboliche, con cui si distoglie l’attenzione dalla necessità di ulteriori interventi strutturali maggiormente efficaci.

In effetti, a problemi complessi, che coinvolgono piani socioeconomici, culturali, istituzionali, di formazione delle forze dell’ordine, disciplinari e più in generale extrapenali, non si può pensare di rispondere soltanto mediante l’unica ratio del diritto penale: occorre, al contrario, un intervento integrato, che coinvolga settori e saperi diversi. Fingere che la risposta penale sia da sola sufficiente significherebbe fare del populismo penale: e il risultato non cambia, che si tratti di populismo ‘di sinistra’ o ‘di destra’. È, dunque, necessaria una revisione radicale del metodo della legislazione, con la presa di coscienza, invocata da decenni dagli studiosi più avvertiti, che la questione criminale non può essere ridotta alla questione penale e dunque alla relativa risposta in termini di solo diritto penale.

Gli interventi più impegnativi, ma anche i più promettenti – e, comunque, doverosi a prescindere dalla questione criminale – da mettere in campo immediatamente per fermare l’avanzata dell’incultura della repressione violenta degli ‘altri’ in nome della ‘sicurezza’, riguardano la prevenzione primaria, cioè quella sociale. Bisogna contrastare, mediante politiche economiche e fiscali redistributive e mediante politiche del lavoro e dell’assistenza sociale adeguate, la crescente insicurezza sociale e la precarizzazione delle esistenze, ulteriormente acuite dalla pandemia, che tendono a tradursi, fomentate dalla comunicazione politico-mediatica, nella richiesta emotiva di sicurezza mediante lo stato penale e di polizia. Soltanto attraverso politiche che garantiscano coesione ed inclusione sociale sarà possibile promuovere l’inclusione anche degli ultimi, evitando quella che oggi appare una guerra tra poveri: tra individui minacciati di proletarizzazione ed esclusione sociale ed altri di cui si riproduce e si aggrava l’esclusione già in atto.

Della questione sociale fa parte anche la questione carcere: è fin troppo noto che l’attuale situazione carceraria, sia pure in misura diversificata sul territorio nazionale, presenta tuttora situazioni di grave sovraffollamento e di invivibilità. Quando si legge che a Santa Maria Capua Vetere manca il collegamento idrico con l’acquedotto, viene da chiedersi in quale parte del terzo mondo viviamo. Prevenzione primaria è anche superare radicalmente il primato della pena detentiva, come ormai da decenni propone la dottrina penalistica, e prevedere poche efficaci sanzioni alternative quali pene principali per le forme meno gravi di criminalità. Una tale riforma strutturale sarebbe ben più efficace delle tante leggi e leggine ‘svuotacarceri’, meritorie negli intenti e in qualche realizzazione, ma pur sempre ispirate ad una logica del contingente, di tipo emergenziale. Essa renderebbe possibile l’effettiva attuazione del precetto costituzionale secondo cui le pene – anche quella detentiva – devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma a tale scopo occorrerebbero investimenti concreti in termini di risorse strumentali ed umane: in molti istituti penitenziari si assiste ad una carenza di mezzi e di opportunità – ad esempio, di formazione e lavorative – nonché di personale, dagli educatori alle stesse forze di polizia, carenza che si riflette inesorabilmente sulle condizioni di vita di tutti coloro che vivono e lavorano in carcere.

Più in generale, bisogna superare la ‘cultura del penale’, quella, cioè, secondo cui la soluzione di ogni conflitto sociale o individuale passa per il ricorso al diritto penale quale prima ratio. In tal modo si otterrebbe, allo stesso tempo, un risultato positivo in termini di garanzie individuali, attualmente messe a rischio da un diritto penale onnivoro, che pervade con le sue migliaia di norme incriminatrici pressoché ogni campo della vita sociale; ma anche in termini di efficacia, liberando l’amministrazione della giustizia penale da fardelli inutili che non è assolutamente e non sarà mai in grado di reggere, se non in maniera strutturalmente selettiva e dunque iniqua.

Coerente con una tale svolta culturale sarebbe un investimento nella formazione giuridica ed operativa delle forze dell’ordine; sotto il secondo profilo, ad esempio, è stato da tempo rilevato come anche le manovre di immobilizzazione fisica eventualmente necessarie debbano essere attuate con modalità conformi ad extrema ratio e proporzione e tali da impedire eventi letali, come quelli verificatisi in non pochi casi, ad esempio in quello dell’uccisione di Federico Aldrovandi.

Anche rimedi cosiddetti ‘situazionali’, volti cioè a prevenire singoli fatti di reato a prescindere da interventi sul contesto socioeconomico e culturale, vanno introdotti o potenziati. Si pensi alle registrazioni mediante videocamere che hanno fatto emergere i recenti accadimenti; ma anche al numero o codice identificativo delle forze dell’ordine. Molti ricorderanno che già nella sentenza della Corte EDU sul caso Cestaro, relativo ai fatti della scuola Diaz, si rilevava come la mancata identificazione di molti esecutori delle violenze fosse dipesa tra l’altro – cioè, oltre che dalla lamentata mancata collaborazione alle indagini da parte di taluni esponenti delle istituzioni poliziali – pure dalla mancanza di tale numero identificativo sulla divisa e/o sul casco degli agenti.

Un ulteriore rimedio situazionale – che, però, presuppone anche una svolta culturale, evidentemente almeno in parte ancora da compiersi – consiste nei controlli da parte dei superiori, prima, durante e dopo le operazioni di polizia, specialmente quando vengono definite ‘straordinarie’: per evitare che tale straordinarietà finisca per corrispondere all’etimo di extra ordinem, ossia fuori dalla legge e dalla Costituzione.

Sul piano normativo – extrapenale, prima che penale – occorrerebbe chiarezza delle responsabilità, certezza e prontezza delle sanzioni disciplinari, anche a carico dei superiori. Non è accettabile che – come denunciato a suo tempo dalla Corte EDU – tali sanzioni non intervengano neppure a seguito dell’accertamento di responsabilità penali; al contrario, in una prospettiva di extrema ratio e di gradualità dell’intervento, la sanzione disciplinare, almeno in via cautelare, dovrebbe intervenire indipendentemente dall’accertamento di responsabilità penali. A me pare che sia in gioco, qui, l’autorevolezza e la credibilità dello stesso potere disciplinare, che non può ritenersi garantita da mere dichiarazioni di condanna attraverso i mass media.

Infine, quale extrema ratio, a fronte di violenze gravi come quelle ancora in corso di accertamento, l’intervento penale deve aver luogo, senza cedere di un milllimetro rispetto alle esigenze di un giusto processo, ma in termini di celerità e ragionevole durata; ancora una volta, risulta emblematico l’esempio negativo, denunciato nella sent. della Corte EDU sul caso Cestaro, nel quale la condanna definitiva intervenne oltre dodici anni dopo i fatti, con conseguente prescrizione di molti reati, comprese le lesioni personali gravi realizzate da appartenenti alle forze dell’ordine.

Sul versante penalistico, occorrerebbe inoltre abolire alcune norme che costituiscono veri e propri residuati fascisti: anzitutto l’art.53 c.p., in tema di uso legittimo delle armi e di altri mezzi di coazione fisica, che consente, sul piano testuale, al pubblico ufficiale l’uso di tali mezzi senza alcun riferimento alla proporzione, all’attualità del pericolo ed all’ingiustizia dell’altrui violenza o resistenza. Di tale norma è stata operata un’interpretazione restrittiva in dottrina e giurisprudenza; ciò nonostante, in uno stato costituzionale di diritto sia l’appartenente alle forze dell’ordine, sia il privato che rischi di subirne l’intervento devono poter trovare in una legge precisa il limite tra la condotta punibile e quella giustificata, e tra tali limiti legali devono esservi la proporzione e gli altri requisiti poc’anzi citati. Ma allora, sarebbe sufficiente, come avviene in altri ordinamenti democratici, fare riferimento alle cause giustificazione già esistenti dell’adempimento di un dovere e della legittima difesa propria o altrui, artt. 51-52 c.p., abolendo l’art. 53 c.p.

Andrebbero, inoltre, aboliti gli artt. 606 ss. c.p., che costituiscono norme di indebito favore per condotte poste in essere da pubblici ufficiali, lesive della libertà e della stessa dignità personale – si veda l’art.608 c.p., abuso di autorità contro arrestati o detenuti -; norme la cui sopravvivenza nel nostro ordinamento costituzionale dovrebbe essere fuori discussione, perché un tale privilegio risulta privo di qualunque legittimazione.

Anche intervenendo su tali norme penali, che giustificano o favoriscono offese alla persona da parte del pubblico ufficiale, si attuerebbe la Costituzione e si comunicherebbe un messaggio chiaro, all’intera collettività, circa l’intollerabilità di tali offese, specialmente su persone “comunque sottoposte a restrizioni della libertà”; come recita il menzionato art.13 co.4 Cost.