di Antonio Cavaliere

 

La recente controversia intorno all’art.41-bis, co.2 ss., dell’ordinamento penitenziario ripropone il confronto tra un orientamento volto primariamente a tutelare i beni fondamentali di individui e collettività da gravi aggressioni criminali, in particolare organizzate, ed un diverso orientamento, non necessariamente contrapposto al precedente, che si preoccupa di garantire a tutte le persone detenute o internate in relazione a quei gravi reati – peraltro, sovente in attesa di sentenza definitiva – un trattamento che, come sancisce l’art.27 co.3 della nostra Costituzione, non può risultare contrario al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato.

È bene ricordare che l’articolo della Costituzione appena citato, come tutti i principi costituzionali, non prevede eccezioni per ‘tipi d’autore’: anche a fronte di forme gravissime di criminalità, non si può mai punire taluno in assenza di una previa legge penale – principio di legalità, art.25 co.2-3 Cost. -, né lo si può punire per fatti altrui o che non siano oggettivamente e soggettivamente ascrivibili come propri: è il principio di personalità della responsabilità penale, art.27 co.1 Cost. Inoltre, pure per gli imputati di reati gravissimi, ad esempio di mafia e terrorismo, valgono – dovrebbe essere ovvio – il diritto di difesa, che l’art.24 co.2 Cost. definisce “inviolabile”, nonché la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, art.27 co.2, e i principi del giusto processo, art.111 Cost.

Dunque, anche a fronte di una condanna per reati gravissimi, la sanzione penale non può mai risultare contraria all’art.27 co.3 Cost.: in particolare, essa deve sempre tendere verso l’obiettivo del reinserimento sociale del reo. A maggior ragione, allorché si priva della libertà personale una persona che fino alla condanna definitiva è da presumersi non colpevole, ciò deve avvenire nel rispetto del senso di umanità e limitando al massimo gli effetti inevitabilmente e gravemente desocializzanti della detenzione.

La funzione della pena, nel nostro ordinamento costituzionale, non può consistere nel mero castigo; e neppure in forme di carcere ‘duro’ volte a finalità ‘esemplari’ – perché ciò significherebbe violare la dignità della persona, riducendola a mezzo per scopi di intimidazione generale -; e tantomeno la pena può consistere in trattamenti inumani volti a ‘neutralizzare’ una persona mediante l’inflizione di sofferenze ulteriori alla privazione della libertà.

Solamente se rispetta la persona anche in chi ha commesso o è soltanto accusato di aver commesso gravi reati, il nostro ordinamento può rivendicare la propria civiltà, distinguendosi da quei sistemi normativi autoritari o totalitari in cui i detenuti vengono rinchiusi a lungo in isolamento in celle anguste e blindate senza alcuna possibilità di socialità, fino ad impazzire; oppure in campi o strutture che assomigliano a lager; oppure vengono torturati, magari per estorcere dichiarazioni auto- o eteroaccusatorie, ossia “collaborazioni di giustizia”. Nel nostro ordinamento costituzionale, non si possono impiegare forme di carcere ‘duro’ per costringere detenuti a collaborare.

È qui che emerge un profilo fondamentale – non l’unico – di problematicità dell’art.41-bis o.p. ed in particolare dei suoi commi 2 ss.: esso prevede una serie di inasprimenti del regime di esecuzione, tra i quali spicca il sostanziale isolamento di una persona in una cella, per almeno 4 anni, con eccezionale limitazione delle ore d’aria e con ulteriori restrizioni relative agli oggetti che può ricevere – senza specificazioni, e quindi fino a poter escludere libri e giornali -, ai colloqui o alle telefonate con ogni parente anche più stretto con cui è escluso qualunque contatto fisico, finanche una carezza. Tutto ciò non è una tortura? Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, no. Ma è difficile escludere che si tratti dell’inflizione di una sofferenza grave e prolungata, che, minando la salute fisica e psichica di chi vi è sottoposto, si pone ai limiti del contrasto con il senso di umanità – anche nel senso di un contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art.3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – e con qualsiasi tendenza alla rieducazione, intesa quale ‘recupero sociale’. Vi è perciò da dubitare fortemente della legittimità costituzionale dell’art.41-bis o.p., in rapporto anzitutto – ma non solo, come vedremo – all’art.27 co.3 Cost.; e va qui precisato che un’eventuale compatibilità con la CEDU – che è pur sempre fonte subordinata alla Costituzione – non esclude l’eventuale incostituzionalità della disciplina.

La ‘durezza’ dell’art.41-bis non va assolutamente trascurata. Da docente universitario di diritto penale, ho ottenuto più volte l’autorizzazione a visitare con gli studenti un carcere – mai, tuttavia, in strutture destinate all’esecuzione in regime di art.41-bis -; ed ho assistito ad episodi di grave malessere di studentesse e studenti ventenni, per essere rimasti un solo minuto in una cella vuota e con la porta aperta. Il carcere è già abbastanza ‘duro’ di per sé; ulteriori, pesanti restrizioni possono renderlo umanamente insopportabile. Ecco, bisognerebbe che chiunque si occupasse di carcere duro – i politici, gli opinionisti, gli operatori della giustizia, ma soprattutto i pubblici ministeri e i giudici penali – visitasse almeno una volta nella vita, per qualche ora, quei luoghi, per poter immaginare che cosa significhi vivere anni in carcere; a quel punto, potrebbe pure immaginare che cosa significhi vivere per 4 anni – prorogabili, di 2 anni, fino a fine pena, in caso di ergastolo fino alla morte del detenuto – in un regime speciale di carcere ‘duro’ come quello di cui all’art.41-bis.

D’altro canto, sull’altro piatto della bilancia vi è l’esigenza, imprescindibile ed altrettanto fondata sul piano dei principi costituzionali, di tutelare beni fondamentali – quali la vita, l’incolumità fisica o le libertà di una o più persone – dal pericolo che persone detenute o internate possano, nonostante siano recluse, concorrere alla realizzazione di reati contro quei beni, in particolare determinando o istigando altri a realizzare stragi, omicidi o altri gravi reati. Pericolo ravvisabile in particolare in rapporto a detenuti o internati appartenenti o collegati ad organizzazioni criminali; specialmente se si tratta di capi di tali organizzazioni. È proprio su questa legittima esigenza di tutela – e, dunque, sulla ratio di impedire contatti tra i detenuti e le organizzazioni criminali di appartenenza, che mantengano il vincolo associativo, con il rischio di dar luogo alla realizzazione di ulteriori reati – che si fonda l’art.41-bis o.p.; ciò non significa, però, che il modo in cui lo stesso art.41-bis e le disposizioni collegate provvedono a tale esigenza sia quello conforme a Costituzione e, in particolare, che la disciplina ivi prevista sia proporzionata e strettamente necessaria a perseguire lo scopo cui mira.

La nostra Corte costituzionale è intervenuta più volte sull’art.41-bis. Essa ha affermato chiaramente che le speciali limitazioni rispetto alle comuni regole del trattamento penitenziario possono risultare legittime soltanto se sono necessarie allo scopo di impedire i collegamenti con organizzazioni criminali e non possono consistere, invece, in mere forme di afflizione supplementare, di carcere ‘duro’. Ed ha ripetutamente dichiarato parzialmente illegittimo l’art.41-bis: due volte, rispettivamente nel 2013 e nel 2021, in relazione alla violazione del diritto di difesa – per la limitazione dei colloqui con i difensori e la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza con gli stessi – ed inoltre, nel 2018, nella parte in cui vietava al sottoposto a quel regime di “cuocere cibi” in cella – divieto il cui nesso con l’esigenza di evitare pericolosi contatti con l’esterno risulta enigmatico – e, nel 2020, in rapporto al divieto di scambiare oggetti all’interno dello stesso “gruppo di socialità” (che, ricordiamo, è composto da non più di quattro persone e si incontra solo per due ore al giorno).

In effetti, il difficile bilanciamento tra la tutela dei singoli e della collettività dalla realizzazione di ulteriori gravi reati e la tutela della persona detenuta o internata da trattamenti inumani o, comunque, contrastanti con la necessità che la pena tenda sempre verso lo scopo del reinserimento sociale, come sancito dall’art.27 co.3 Cost., va realizzato, sempre secondo la nostra Costituzione, attraverso una normativa rispettosa di esigenze di proporzione, congruità e necessità delle restrizioni al fine di prevenire collegamenti con organizzazioni criminali. Ed è alquanto dubbio che almeno alcune delle prescrizioni previste dall’elenco, piuttosto generico, di cui al comma 2-quater dell’art.41-bis o.p. siano davvero congrue, proporzionate e necessarie in vista dell’obiettivo di impedire collegamenti con organizzazioni criminali e non finiscano, invece, per costituire semplicemente degli inasprimenti del trattamento penitenziario.

Già la formulazione della lettera a) del co.2-quater risulta in tal senso pericolosamente ‘aperta’: si prevede «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza […]». Quali siano tali misure non è stabilito dalla legge; e il termine “principalmente” indica proprio la possibilità che siano adottate misure che non hanno a che vedere con l’impedimento di contatti con organizzazioni criminali.

Inoltre, ad esempio, è dubbio che serva a tale obiettivo il dimezzamento delle ore d’aria e di socialità; ma è dubbio anche che sia congruo e necessario limitare i colloqui con i familiari o conviventi, perché ciò presuppone l’inaccettabile presunzione che i familiari dei detenuti/internati – taluni, oltretutto, in attesa di giudizio e quindi presunti innocenti – siano a loro volta criminali. Anche la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, nella sua genericità, appare eccessiva: perché può estendersi al divieto di ricevere libri, giornali e quant’altro. La persona detenuta o internata in regime di cui all’art.41-bis o.p. resta, dunque per ventidue ore su ventiquattro chiusa in cella, senza poter parlare con nessuno e senza poter fare quasi nient’altro che vegetare e rimuginare tra le pareti. Si noti che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, l’isolamento e l’inattività prolungati contribuiscono a definire un trattamento carcerario inumano. Tutto ciò, al di là delle motivazioni ‘manifeste’ dell’art.41-bis, dà vita ad un carcere duro da sopportare; e sorge naturale il dubbio che una tale durezza miri pure all’obiettivo ‘latente’ di indurre, in modo certamente ‘non soave’, a collaborare.

Alle considerazioni precedenti va ora aggiunto che, trattandosi di materia penale – perché si tratta di un regime di esecuzione di pene o misure di sicurezza o della custodia cautelare in carcere – quel difficile bilanciamento tra tutela della collettività e diritti del detenuto va realizzato mediante una disciplina conforme al principio di legalità, art.25 co.2-3 Cost.; principio che, come la Corte costituzionale ha affermato, finalmente, con la sent. n.32 del 2020, deve valere anche per l’esecuzione delle pene. La Corte si è riferita in particolare all’irretroattività della disciplina penitenziaria sfavorevole, in rapporto all’ammissione a misure alternative alla detenzione; ma occorre più ampiamente riconoscere che il principio di legalità in tutti i suoi corollari debba valere pure per l’esecuzione della pena, specialmente – ma non solo – detentiva, perché si tratta del momento in cui concretamente si infligge la sanzione più severa a disposizione dell’ordinamento, che incide su libertà e dignità della persona. E la necessità della stretta legalità si impone pure quando sono in gioco ulteriori, gravi restrizioni speciali delle libertà fondamentali di una persona detenuta o internata, come nell’art.41-bis co.2 ss. o.p.

Ma perché il principio di legalità sia davvero soddisfatto, occorre che i presupposti in presenza dei quali può essere disposta la sottoposizione di una persona alla disciplina di cui all’art.41-bis o.p. ed il contenuto di tale disciplina siano chiari, precisi ed empiricamente verificabili. E non solo: dal momento che la disciplina di cui all’art.41-bis comporta, come già ricordato, ulteriori e gravi limitazioni della libertà personale, essa deve rientrare nell’ambito di tutela di tale libertà, definita “inviolabile” dall’art.13 Cost., il cui secondo comma recita: «Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Dunque, riserva di legge rinforzata dalla necessaria previsione tassativa di “casi e modi” e riserva di giurisdizione rinforzata dalla necessaria motivazione. L’art.13 Cost. deve ritenersi certamente applicabile anche alle persone detenute o internate, per ogni ulteriore restrizione ‘speciale’ della loro libertà personale. Inoltre, il principio di legalità e la riserva di giurisdizione devono valere per ogni limitazione delle comunicazioni: infatti, secondo l’art.15 Cost., «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge».

Ebbene, sotto il profilo della legalità e della riserva di giurisdizione l’art.41-bis co.2 o.p. risulta palesemente in conflitto con i principi costituzionali. Leggiamo: «Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». Il Ministro può dunque sospendere, anche “in tutto”, l’applicazione delle regole e gli istituti dell’intero ordinamento penitenziario che a suo avviso contrastino con esigenze di ordine e sicurezza; l’apparente onnicomprensività di tale disposizione è attualmente limitata dall’elenco delle restrizioni di cui al co.2-quater dello stesso articolo, un elenco, tuttavia, come ho già rilevato, ampio ed in parte indeterminato. Resta, ad ogni modo, il dato per cui il Ministro della giustizia non è – ovviamente – un’autorità giudiziaria, e le limitazioni e i divieti previsti dal co.2-quater costituiscono ulteriori limitazioni della libertà personale, art.13 Cost., o di comunicazione, art.15 Cost., che incidono in modo sostanziale e pesante sull’esecuzione della pena; e resta il dato per cui questa dovrebbe essere soggetta alla riserva assoluta di legge di cui all’art.25 co.2-3 Cost. La libertà personale e quella di comunicazione ed il contenuto della pena, nella sua concretissima, quotidiana esecuzione, non possono assolutamente essere rimesse alla “facoltà” di un Ministro, con un provvedimento della durata di ben quattro anni, prorogabili di due anni per più volte!

Inoltre, i “motivi” e le “esigenze” di “ordine e sicurezza” – richiamati sia in chiave di presupposti dell’applicazione dell’art.41-bis o.p. che in sede di definizione dei suoi possibili contenuti – presentano una vaghezza incompatibile con la tassativa previsione dei “casi” di limitazione della libertà personale richiesta dall’art.13 Cost. e con il principio di legalità della pena (e della misura di sicurezza) di cui all’art.25 co.2(-3) Cost.

Una tale vaghezza si riflette inevitabilmente, per un verso, sulla possibilità di controllo giurisdizionale in ordine alla legittimità del provvedimento del Ministro della giustizia, perché sulla sussistenza di generiche esigenze di ordine e sicurezza si può disputare all’infinito; si tratta di concetti affetti da congenita carenza di precisione e di verificabilità empirica. Per altro verso, la vaghezza del fondamento giustificativo del provvedimento ministeriale si riflette sui suoi contenuti, anche al di là del ricordato riferimento ad “ordine e sicurezza” nel co.2-quater. Ciò risulta evidente già leggendo il periodo successivo dell’art.41-bis co.2 o.p.: «La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente». Dunque, secondo il tenore della disposizione non si tratterebbe solo di impedire i collegamenti con organizzazioni criminali, ma anche di assicurare “ordine e sicurezza”. Quest’ambiguità di fondo si riflette sull’interpretazione più o meno ampia, ovvero più o meno ‘duramente’ orientata ad “ordine e sicurezza”, di tutte le limitazioni che il Ministro può disporre.

Per di più, poiché le limitazioni e i divieti contenuti nel co.2-quater dell’art.41-bis sono in parte alquanto generici, è invalsa la prassi applicativa di prevedere circolari amministrative che stabiliscano più precisamente l’oggetto delle restrizioni: ma ciò vuol dire che viene rimesso alle articolazioni, centrali o addirittura locali, dell’amministrazione penitenziaria di stabilire il contenuto stesso della pena, la portata della “sospensione delle regole e degli istituti” penitenziari, così come viene vissuta giorno per giorno dal detenuto/internato. Anche questo dato stride fortemente con gli artt.13 e 15 Cost. e con la legalità della pena; e rischia ulteriormente di avallare la surrettizia trasformazione di un istituto volto ad impedire contatti con organizzazioni criminali in una incostituzionale forma di carcere ‘duro’, volta alla mera afflizione e, non da ultimo, alla coazione a collaborare.

L’esigenza di tutelare la vita, l’incolumità e la libertà delle persone dal pericolo di reiterazione di condotte criminali può sicuramente legittimare limitazioni ai contatti tra i detenuti ed altri delinquenti in libertà. E ciò anche al di là di forme di criminalità organizzata; si pensi soltanto – nell’infinità dei casi possibili – al pericolo che un detenuto per omicidio determini il coautore o il complice che si trova in libertà ad eliminare l’unico testimone, o che il membro detenuto di una semplice banda più o meno giovanile – o ‘informale’ – determini gli altri membri ad ulteriori delitti contro la persona, come sparare a qualcuno. Quell’esigenza, reale, seria e concreta, però, non deve indurre a creare regimi ‘di eccezione’ e dev’essere perseguita sempre nell’osservanza dei principi di legalità – comprensiva di riserva di legge e precisione o determinatezza e tassatività -, riserva di giurisdizione, divieto di trattamenti contrari a senso di umanità, finalismo rieducativo.

Di conseguenza, l’art.41-bis o.p., a mio parere, dovrebbe essere oggetto di ulteriori pronunce di illegittimità costituzionale e di una radicale revisione legislativa, che coinvolga l’ordinamento penitenziario nel suo complesso. Ma ciò richiederebbe una rivoluzione culturale altrettanto radicale rispetto al clima politico, giudiziario e mediatico dominante negli ultimi tempi: ossia il riconoscimento dei diritti anche della persona che delinque e la riscoperta del principio fondamentale dell’umanità della pena, che non è altro se non un corollario del principio personalistico su cui si regge l’intera Costituzione italiana, sorta dalle terribili esperienze della dittatura fascista e della guerra.