di Giovanni Cannella
Sono un magistrato, ma, una volta tanto, voglio mettermi nei panni del semplice cittadino, a cui è capitato di leggere l’articolo di Luigi Ferrarella del 23 marzo scorso sul Corriere della sera in ordine ai ritardi nelle valutazioni dei dirigenti degli uffici giudiziari (“Magistrati, 40 ancora capi nonostante pareri negativi”), ripreso il giorno dopo da Paolo Frosina su Il fatto quotidiano (“Le valutazioni? Rinviate: così il Csm degli scandali ha salvato decine di imputati e ‘soci’ di Palamara. Lasciandoli a capo di Tribunali e Procure”).
Il semplice cittadino, a cui è capitato di fare i conti con la giustizia, con i suoi ritardi, le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, cosa può capire e pensare, leggendo i due articoli? Forse si limiterà ad un’alzata di spalle, archiviandoli tra le troppo frequenti conferme del cattivo funzionamento dell’amministrazione pubblica in generale e di quella giudiziaria in particolare.
Ma le implicazioni di quanto denunciato, probabilmente, non è in grado di capirle. Comprende certamente, in primo luogo, che il potere giudiziario è un potere invasivo sulla vita di ogni giorno, sul lavoro, sull’impresa, sull’economia, sulla libertà personale, sulla dignità dell’uomo, ecc. Forse però non può sapere quanto l’esercizio del potere giudiziario dipenda dai capi degli uffici.
Certo il potere giudiziario è un potere diffuso: in base alla Costituzione tutti i magistrati sono autonomi, non sono gerarchicamente subordinati a nessuno, possono assumere le loro decisioni senza condizionamenti. Ma nella realtà è proprio così? Avendo lavorato all’interno della magistratura per oltre quaranta anni, la mia amara risposta è negativa.
I capi degli uffici giudiziari, seppure non sovraordinati gerarchicamente agli altri magistrati e titolari solo di poteri organizzativi e di coordinamento, di fatto possono condizionare pesantemente anche le scelte giurisdizionali. Lo possono fare ad esempio con scelte organizzative, che incidono sul principio costituzionale del giudice naturale (art. 25 Cost., secondo cui “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”).
Ma cosa vuol dire? Semplicemente che il giudice non deve essere scelto di volta in volta per ogni singola causa, bensì sulla base di criteri obiettivi. E’ stato introdotto a questo scopo il criterio generale dell’assegnazione automatica delle cause, che ha la funzione di garantire la trasparenza dell’attività giudiziaria, di evitare anche il solo sospetto che il giudice possa essere scelto dalle parti, che possa scegliere le cause da trattare, che l’assegnazione sia pilotata per raccomandazione o peggio corruzione.
Va osservato che il principio costituzionale del giudice naturale costituisce un fondamentale presidio di democrazia e di tutela dei ceti più svantaggiati, perché è ovvio che la raccomandazione e, ancor di più la corruzione, va a vantaggio di chi ha più potere o soldi. Il povero cristo che non ha nulla da dare in cambio difficilmente potrebbe, anche se volesse, ottenere un’assegnazione favorevole ai suoi interessi.
Il capo dell’ufficio potrebbe quindi violare le regole di assegnazione, ma potrebbe anche aggirarle, con la formazione di pool o gruppi di lavoro distinti per materia, inserendovi i magistrati con criteri arbitrari.
Ma anche scelte organizzative formalmente legittime potrebbero incidere negativamente sulle fasce di popolazione più deboli. Se, ad esempio, il capo decidesse di destinare meno magistrati a materie come quelle dell’immigrazione sarebbe evidente il danno per soggetti con difficoltà economiche e sociali. Lo stesso risultato negativo potrebbe derivare da decisioni organizzative relative alla distribuzione del personale di cancelleria, dei locali, dei beni strumentali, ecc. Si tratta di scelte apparentemente solo organizzative, che possono tuttavia avere un pesante impatto sulla giurisdizione e sui diritti delle persone.
Inoltre il capo dell’ufficio ha il compito di predisporre i pareri di valutazione per promozioni o incarichi dei magistrati dell’ufficio, e ciò può condizionarli psicologicamente e spingerli ad un atteggiamento passivo se non condiscendente verso comportamenti del capo poco corretti. Sembra inverosimile con riguardo ad una professione che spicca per autonomia e indipendenza, ma molti, troppi, magistrati subiscono questo condizionamento, con la conseguenza che molti comportamenti scorretti non vengono neppure alla luce per quella che non può che definirsi omertà. Non ci crederete, ma ci sono stati, posso testimoniarlo personalmente, e probabilmente ci sono ancora uffici giudiziari, nei quali chi osa ribellarsi al capo è oggetto di pesanti attenzioni e rischia l’isolamento e l’ostracismo.
Il capo di un ufficio giudiziario o anche di una semplice sezione è in grado quindi di condizionare pesantemente il corretto funzionamento della giustizia e la tutela dei diritti delle persone. Per fortuna molti capi sono corretti e in grado di organizzare l’ufficio in modo efficiente.
Da questo punto di vista la situazione è molto migliorata rispetto al periodo precedente alla riforma del 2006, che ha previsto la temporaneità degli incarichi direttivi. Prima il capo poteva rimanere in carica per molti anni fino alla pensione, senza che fosse sottoposto ad alcuna valutazione di merito, con la conseguenza che gli eventuali difetti di comportamento non potevano essere curati, salvo eventi estremi, davvero rari, che ne potessero consentire il trasferimento d’ufficio.
A seguito della riforma oggi i direttivi (procuratori capi, presidenti di Tribunali e Corti d’appello) e i semidirettivi (procuratori aggiunti, presidenti di sezione) durano in carica quattro anni, rinnovabili una volta sola per altri quattro anni, in caso di valutazione positiva del primo periodo.
La riforma ha contribuito certamente a svecchiare e migliorare il livello qualitativo dei dirigenti, ma non ha risolto tutti i problemi. Da un lato, infatti, ha moltiplicato il numero dei dirigenti da scegliere, creando notevoli difficoltà organizzative al Csm e spingendolo verso scelte e accordi poco trasparenti, come è emerso in modo sconvolgente nel caso Palamara. Dall’altro non ha risolto il problema di una corretta e tempestiva valutazione del primo quadriennio, essendo previsto che fino ad un’eventuale decisione contraria al rinnovo, il capo resta provvisoriamente in carica.
In questo quadro l’allarme lanciato nei due articoli citati appare particolarmente preoccupante. Se sono esatti i dati riportati dai giornalisti il nuovo Consiglio superiore della magistratura ha ricevuto in eredità dal precedente ben 41 pratiche di valutazione del primo quadriennio non evase, di cui otto relative a procuratori capi e undici a presidenti di Tribunali e Corti d’appello. Quasi tutte queste pratiche riguarderebbero casi “problematici”, e cioè magistrati sottoposti a procedimenti penali o disciplinari oppure a una valutazione negativa da parte del Consiglio giudiziario, che, a livello territoriale, fornisce il proprio parere al Csm.
Poiché, come dicevo, in attesa della decisione sul rinnovo quadriennale, il capo resta provvisoriamente in carica, i ritardi che, secondo i giornalisti sarebbero di due, tre o addirittura quattro anni, costituiscono una sostanziale e definitiva omissione, che vanifica la valutazione. E’ evidente, infatti, che la decisione tardiva diventa del tutto inutile, intervenendo quando il capo ha già di fatto ricoperto il periodo di rinnovo dell’incarico.
Si tratta di un esito inaccettabile anche in caso di valutazione positiva, che dovrebbe intervenire prima del periodo di rinnovo per avere senso, ma è molto più grave in caso di decisione negativa, perché consente al capo di ricoprire il posto abusivamente, perpetuando le cattive abitudini nell’esercizio del potere direttivo.
Se è vero che la vicenda riguarda soprattutto i casi “problematici” descritti, è verosimile ritenere che le decisioni, quando interverranno, saranno in prevalenza negative, ed è quindi pienamente giustificato l’allarme lanciato dalla stampa.
Non si vuole negare che il Csm è oberato da una mole non indifferente di lavoro, ma i ritardi in questo caso non possono davvero essere giustificati, trattandosi di pratiche che dovevano essere trattate con particolare urgenza e preferenza rispetto ad altre pratiche ordinarie.
Come risolvere il problema? Entro quanti giorni il nuovo consiglio provvederà a definire le pratiche pendenti? Cosa si intende fare per evitare che una simile vicenda possa ripetersi?
Il semplice cittadino attende risposte.