Relazione al convegno sulla riforma Orlando organizzato dalle camere penali del Veneto il 27 ottobre 2017

Grazie dell’invito, perché mi consente di apprendere molte riflessioni dalle due relazioni sulla parte processuale che ho testè ascoltato.

E’stato giusto che precedessero la relazione sulla parte sostanziale perché sono passati molti anni dal momento in cui si diceva che il diritto processuale era ancillare e strumentare a quello sostanziale, oggi è divenuto il protagonista del diritto penale, non solo per gli evidenti risvolti che ha il processo penale sulla libertà e sullo status delle persone, ma anche perché è attraverso il diritto processuale che si modellano anche gli istituti di diritto sostanziale.

Rispetto alle parti sostanziali, devo dire che il titolo “Luci ed ombre” andrebbe completamente modificato, perché la “notte dei principi” ha presieduto alle scelte del legislatore.

In primo luogo l’aumento delle pene.

Mi riferisco in particolare all’aumento delle sanzioni, uno strumento da sempre considerato inefficace, sia a fini di prevenzione generale, tanto più a fini di prevenzione speciale. E’ un percorso che il Legislatore attua solitamente per ragioni di legittimazione politica, legato ai fenomeni di percezione dell’insicurezza su cui vuole intervenire, che proietta sulla produzione di una normativa simbolica che provoca gravi guasti all’equilibrio del tessuto ordinamentale.

Parlo in primo luogo degli inasprimenti previsti dagli artt. 5, 6, 7, 8, 9 della legge. Oltre all’aumento sul solito delitto antimafia, che costituisce una cifra sempre significativa di questo tipo di leggi “sicurezza” – cioè il 416 ter “scambio elettorale politico mafioso” – si interviene infatti sui delitti contro il patrimonio: in particolare rispetto al furto in abitazione e al furto con strappo, norme già incise da precedenti decreti proprio rispetto al quadro edittale della pena, con un aggravio sanzionatorio totalmente squilibrato. E’ stato fatto rilevare dai primi commentatori che il furto con strappo finisce per avere una cornice edittale paragonabile a quella della rapina, superiore a quello di alcuni delitti contro l’incolumità pubblica.

Si rivalorizzano le aggravanti previste dall’art.625, raddoppiando il minimo della pena della fattispecie aggravata del furto, che, come è noto, è la fattispecie di furto, visto che le circostanze in questione coprono pressochè l’intera gamma delle ipotesi di furto che possano realizzarsi in concreto.

Se si aggiunge che, per alcune aggravanti, e stato previsto il divieto di bilanciamento ai sensi dell’art.69 si ha la contezza di un legislatore che ripropone la centralità dei delitti contro il patrimonio come oggetto di tutela, che caratterizzava il codice Rocco prima della riforma del 1974.

Un divieto di bilanciamento particolarmente grave perché impedisce al giudice di apprezzare il disvalore concreto del fatto rispetto al suo autore, creando presunzioni di pericolosità più volte censurate dalla nostra Corte Costituzionale (da ultimo si veda Corte Cost.105/2014).

Un legislatore che sconta dunque, come effetto delle sue scelte, rispetto alla platea dei tipi di autore di questi reati, una presenza di persone detenute nei prossimi anni ben più significativa dell’attuale.

Quello che si delinea, più in generale, è una situazione che provoca un ulteriore slittamento del sistema del cd doppio binario dell’intervento penale: mi riferisco alla distinzione tra fenomenologie penalistiche che comportano carcere e fenomenologie penalistiche che comportano sanzioni più stigmatizzanti, più ineffettive, più simboliche, confinando nel primo corno la disciplina della criminalità organizzata, terroristica e mafiosa.

In realtà il modello penale sostanziale e anche processuale, sperimentato per la criminalità organizzata – pensiamo sul piano processuale all’utilizzo del del virus informatico nell’ambito delle intercettazioni ambientali – ha finito per contagiare e per attrarre progressivamente nuovi pezzi della legislazione ordinaria, che prima valevano a disciplinare forme di criminalità o di devianza solo eventualmente plurisoggettive o comunque non meritevoli di questa forma di appesantimento sanzionatorio. Questo è stato ben visibile ed è ben visibile anche in questa occasione, rispetto a materie, prima fra tutte la corruzione, divenuta una sorta di archetipo esemplare della criminalità che va in qualche modo combattuta e assimilata a fenomeni mafiosi (in tal senso la sua recente attrazione nelle misure di prevenzione antimafia).

Del resto, che la riforma non abbia alcuna base nella trama dei principi costituzionali, che delineano una gerarchia di tutela dei beni è ben visibile anche sul versante opposto rispetto a un istituto, che pur si propone sul versante deflattivo del processo e della pena, mi riferisco al nuovo art.162 ter.

L’estinzione del reato per condotte riparatorie.

Ne parlo in forma più analitica, perché pone molti interrogativi applicativi.

La prima osservazione generale che occorre fare è che, coniugando questo istituto con la legge delega, che prevede l’introduzione della procedibilità a querela per tutti i delitti puniti fino a 4 anni contro il patrimonio e contro la persona, salve alcune eccezioni, siamo di fronte a un’area applicativa rilevante dell’istituto.

In questo caso l’obbiettivo viene (vorrebbe essere) raggiunto a scapito del rispetto dei principi costituzionali in materia di gerarchia dei beni: le scelte operate sulla penalità dovrebbero percorrere un itinerario che tiene conto del significato della tutela.

Non è pensabile che si proceda disinvoltamente alla monetizzazione, come avviene in questo caso, del bene dell’incolumità delle persone, di fatto sguarnendo il presidio penale nella materia.

L’istituto viene disegnato ricopiandolo letteralmente dalla prima parte dell’art. 62, n. 6, dall’attenuante del risarcimento del danno, e insiste sul modello già sperimentato, sopratutto in virtù dell’art. 35 della disciplina del giudice di pace, che consente di far cessare il conflitto intervenendo in forma compositiva e facendo venir meno l’azione penale.

L’art.163 bis è disegnato un po’ diversamente rispetto all’art. 35, perché da un lato riproduce sul piano letterale la dizione del 62, n. 6, cioè presuppone non solo il risarcimento, ma “l’integralità” del risarcimento; dall’altro non detta alcun criterio regolativo della scelta del giudice, mentre l’istituto delineato nell’ambito del Giudice di Pace prevede espressamente che la condotta riparatoria debba essere idonea a soddisfare l’esigenza di “prevenzione e riprovazione del reato”, pur nell’ambito di una giurisdizione, che procede per equità. Apparentemente dunque il riferimento dell’art. 163 bis è meramente civilistico e determina una serie di problemi rispetto all’apprezzamento del giudice e alle conseguenze che ne derivano.

D’altro canto l’istituto non ha in mente una giustizia compositiva e di riconciliazione tra l’autore e la vittima del reato: essendo i reati procedibili a querela la riconciliazione tra le parti si realizza con la remissione di querela. Il funzionamento dell’istituto si avrà proprio quando permane un conflitto tra l’istanza punitiva e le pretese della parte offesa che è stata violata da un lato e l’offerta dell’imputato dall’altro.

L’offerta risarcitoria può essere fatto fino all’apertura del dibattimento, dando ulteriori termini se il soggetto dimostri che non ha potuto provvedere entro questa fase al risarcimento e alla restituzione.

Rispetto a questo conflitto il giudice può intervenire anche in limine litis, “sentite le parti e la parte offesa”. Nulla vieta che sia sollecitato il GIP anche durante le indagini preliminari, ma i risvolti processuali dell’istituto sono lasciati in ombra . Nulla si dice sulla modalità con cui debbono venire ascoltate le parti, se il giudice del dibattimento potrà, al solo fine di valutare il danno, acquisire il fascicolo del pubblico ministero, essendo difficile ipotizzare che una valutazione sia pur sommaria, ma non arbitraria, rinunci a percorrere i sentieri della ricostruzione dei fatti avvenuta durante le indagini, per soppesarne la gravità.

In tal caso però se il giudice formula una valutazione pregnante, ma reiettiva della richiesta, può produrre un’incompatibilità a proseguire nel giudizio (incidendo negativamente sulla finalità deflattiva proclamata).

Nulla vieta peraltro che il Giudice consideri l’offerta adeguata anche all’esito o lungo il corso del procedimento di primo grado (dovendosi ritenere implicito, trattandosi di una nuova causa estintiva, il richiamo all’art. 129 del codice di rito sull’obbligo di immediata declaratoria), sempre che la riparazione sia avvenuta nei termini previsti.

Si tratta di comprendere se questa riparazione prosciughi l’azione civile.

La risposta non è semplice.

Da un lato la lettera della disposizione, con un richiamo espresso all’integralità del risarcimento, sembrerebbe fare propendere per una soluzione affermativa, dall’altro occorre misurarsi con la ratio dell’istituto rispetto alla sua collocazione sistemica e con i precedenti giurisprudenziali relativi all’applicazione dell’istituto del giudice di pace, al quale abbiamo fatto cenno.

Rispetto a quest’ultima disciplina le Sezioni Unite ( vedi S.U del 23 aprile 2015 n. 3386) hanno ritenuto inammissibile l’appello della parte civile rispetto a una sentenza che aveva apprezzato in modo non adeguato il risarcimento sull’assunto che rimanga aperta la possibilità di esperire un’azione civile, rivendicando la necessità di un interpretazione costituzionalmente orientata dell’istituto, che tenga conto della necessità di non escludere l’imputato con minore capienza economica. Profilo risolto positivamente nell’art.62 n.6, rispetto alla concessione dell’attenuante, laddove si ricollega la diminuzione di pena anche alla condotta di chi si sia comunque “adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”. D’altro canto la disciplina del giudice di pace significativamente parla di risarcimento, senza aggiungervi la parola “interamente”, che compare invece come detto nel nuovo art. 162 ter, e àncora la finalità dell’istituto espressamente a una dimensione penalistica, cioè ad un’esigenza retributiva e prognostica (vedi Cass. Sez.5, 24.13.2005 n.14070 a conferma di Cass. Sez 4, 09.12.2003 n.1152) che escludono che la pronuncia esaurisca il suo significato nella dimensione civilistica del danno, di cui si sottolinea l’inevitabile sommarietà di valutazione.

Sul versante sistemico la collocazione della norma nell’ambito di altre cause estintive del reato e della pena (oblazione e sospensione condizionale) potrebbe fare pensare che anche questo nuovo istituto non possa sottrarsi alle valutazioni prognostiche favorevoli dalle quali dipendono gli istituti che lo contornano. La lettera dell’art. 162 bis non lascia però al giudice alcuna discrezionalità perché la causa estintiva si ricollega automaticamente al presupposto: l’integrale risarcimento civilistico avvenuto prima dell’apertura del dibattimento.

Difficile ritenere che il giudice possa negarlo all’aggressore seriale capiente e possa concederlo all’aggressore incapiente.

In tal senso l’istituto pone seri problemi di costituzionalità in ordine a una sua ragionevole applicazione che tenga conto, da un lato, di un criterio di uguaglianza sostanziale e, dall’altro, di un profilo costituzionale dell’illecito penale nel quale anche l’esigenza di prevenzione speciale si appunta sul modello disegnato dall’art. 27 primo e terzo comma della Costituzione. Un modello che non pare in alcun modo rispettato da una causa estintiva di tal fatta considerando anche l’eterogeneità del bene in gioco di cui si sguarnisce la tutela, o, meglio, la si monetizza.

Siamo in un Paese singolare. Quando è emersa dalle cronache giudiziarie una prima applicazione di tale disposizione – una sentenza del Gup di Torino che ha liquidato una somma piuttosto bassa per un reato di stalking, suscitando le ire funeste della vittima, che ha trovato ampio spazio mediatico, il Ministro di Giustizia si è meravigliato e ha subito invocato la riforma della riforma.

D’altro canto se mai si ritenesse che l’istituto, forzando la ratio e il dato letterale, conduca a ritenere inevitabile la sopravvivenza di un’azione civile ben si comprende come si creerebbe solo un gioco di vasi comunicanti: alla deflazione penalistica corrisponderebbe un’inflazione della giurisdizione civile.

Ultima osservazione in tema di “integralità” del risarcimento: va ricompreso certamente anche il pagamento delle spese legali perchè la giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. sez V, 7 marzo 2013 n.21112 ) lo aveva negato rispetto al giudice di pace, ma sul presupposto che si tratta di una fase e di una giurisdizione nella quale la presenza del difensore non è necessaria, diversamente da quello che accade davanti alla giurisdizione ordinaria.

La riforma della prescrizione

Terzo punto su cui è intervenuto il legislatore riguarda una norma di carattere sostanziale (rimasta fortunatamente tale) quello della prescrizione. L’ordinanza della Corte Costituzionale ( 24/2017 di remissione alla CGCE) che ha mantenuto la sua giurisprudenza consolidata, attivando un contro limite rispetto alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso Taricco, ha impedito una deriva manifestatasi nell’immediatezza anche con una prima sentenza della Suprema Corte ( ) che l’aveva direttamente fatta sua. Una scelta diversa avrebbe dato spazio alla possibilità da parte dei giudici di merito di disattendere i termini prescrizionali previsti dalla legge, ogni qual volta non consentivano di poter perseguire efficacemente una certa tipologia di reati a tutela di beni per i quali fosse obbligatoria, per la normativa sovranazionale, la predisposizione di norme efficaci e dissuasive (senza neppure passare attraverso la Corte Costituzionale) .

Si è così evitata una babele di decisioni che avrebbe inciso profondamente sul principio di legalità.

La motivazione della sentenza è molto significativa e importante alla luce anche del principio di tassatività che la Corte ha di nuovo rivalorizzato in maniera molto significativa.

D’altro canto io penso che la prescrizione vada difesa perché è incivile un Paese che non rapporta la limitata durata della vita a termini ragionevoli per procedere penalmente nei confronti degli accusati, comparati alla gravità dei fatti che loro vengono attribuiti (e ben si può richiamare quanto si ricava dal sistema costituzionale e dalle norme che mettono la persona al centro della tutela).

Il vecchio Codice Rocco, pur con un’ispirazione autoritaria, aveva predisposto una disciplina frutto di un tecnicismo più raffinato di quello che governa le novelle nella nostra materia, indicando i termini di prescrizione per fasce di gravità dei reati.

La riforma del 2005 frantumando il meccanismo e riportandolo alle cornici edittali dei singoli reati, riducendola in taluni casi in modo irragionevole (ne era evidente l’ispirazione immunitaria che la modellava) ha provocato i guasti ai quali assistiamo da alcuni anni: per allungare la prescrizione si modificano le cornici edittali delle singole fattispecie a prescindere da ogni plausibilità sanzionatoria.

Il legislatore attuale è intervenuto su due punti.

In particolare sul dies a quo della prescrizione in materia di delitti di cui i minori siano vittime: stabilendo che la prescrizione decorra dal momento del raggiungimento della maggiore età del minore. Badate, si tratta di una norma frutto dell’applicazione di istanze sovranazionali, prima la Convenzione di Istanbul ( art.58), poi la Convenzione di Lanzarote (art.33): accordi internazionali a tutela dei minori che hanno modellato molti istituti processuali, nel caso richiamando la necessità di dilatare l’effetto estintivo del decorso del tempo.

Bisogna dire che la scelta appare ragionevole in astratto perché si può pensare correttamente che l’apprezzamento che il minore faccia del disvalore del fatto, e pertanto il disvelamento di quello che ha subito, possa essere tardivo in dipendenza di una maggiore maturità. In concreto peraltro l’allungamento dei termini prescrizionali avviene rispetto a reati che già li prevedono molto ampi.

Il tema è sempre delicato, perché occorre raggiungere un equilibrio tra l’esigenza di fare un processo in tempi ragionevoli – in tempi in cui si possa acquisire ragionevolmente la prova d’accusa e anche di difesa – e l’esigenza di punire reati gravi e odiosi. Rispetto al minore in particolare ci si può sempre interrogare quanto la rielaborazione di una certa testimonianza attraverso l’età evolutiva possa poi influenzarne la veridicità quando essa affiori solo con la maggiore età. Siamo in una materia nella quale la prova si forma abitualmente in incidenti probatori che costituiscono un pallido simulacro del contraddittorio, e l’accusa invoca fatalmente già solo per essere stata formulata la stigmatizzazione di colui che ne venga toccato. In concreto dunque la divaricazione temporale tra il fatto e le potenziali indagini rende molto difficile l’esercizio del diritto di difesa. Occorre ricordare che la possibilità di cumulare la nuova disciplina, per questo tipo di reati, agli effetti degli artt.157, 8c. e 158 può portare gli effetti estintivi a 40 anni.

Poi sono state state introdotte due ipotesi di sospensione.

La prima rispetto alle rogatorie la seconda in occasione delle impugnazioni dei condannati in primo e in secondo grado.

Mi occupo della seconda in particolare: disciplina è semplice e risulta dalla lettura della disposizione. La sospensione va dal deposito della sentenza di condanna di primo grado fino al dispositivo della sentenza di condanna di secondo grado, per un anno e mezzo, cui si aggiunge un ulteriore anno e mezzo dal deposito della sentenza di condanna di secondo grado fino alla lettura del dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione. Ovviamente, in caso di annullamento e rinvio si delinea un’ulteriore analoga sospensione.

Questa sospensione non ha luogo, invece, laddove nel grado successivo il soggetto sia prosciolto. Il Giudice d’appello si troverà allora a dovere tenere conto anche del possibile sopraggiungere della prescrizione sospesa laddove intenda assolvere l’imputato, dovendo fare prevalere la causa estintiva rispetto all’assoluzione ai sensi dell’art. 129: ma questo peraltro non potrà che avvenire dopo avere preso funditus la decisione di assolvere, con ciò svuotando peraltro il senso di tale prevalenza.

Si tratta, tra l’altro, di meccanismo ulteriormente complicato, essendo la sospensione valida solo per coloro che sono condannati e non per eventuali correi assolti. E dunque creando possibili (irragionevoli) disparità di trattamento rispetto all’esito finale che potrebbe essere di proscioglimento per intervenuta prescrizione per taluno dei correi (pensiamo a colui che assolto in primo grado, a differenza dei coimputati, si trovi poi nella condizione di essere condannato in appello con una prescrizione già decorsa, perché non sospesa).

La cosa che più colpisce però di questa nuova disciplina della sospensione sono gli effetti concreti che produrrà, alla luce dell’analisi statistica dell’intervento della prescrizione effettuata nel 2016 dal Ministero di Giustizia.

L’analisi statistica ci dice che il 56% delle prescrizioni avvengono durante le indagini preliminari, cioè le fa il GIP su richiesta del P.M. contro noti (c’è un 1% che riguarda gli ignoti che poco ci riguarda), poi c’è un 4% dichiarate dal GUP durante l’udienza preliminare e un 18% dichiarate dal Tribunale Ordinario. La prescrizione sulla quale incide questa normativa è dunque un 20% del fenomeno.

Significative sono in particolare che la maggior parte delle prescrizioni siano dichiarate in indagini, perché rende evidente come la patologia abbia origine dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Non voglio affrontare questo tema complesso e delicatissimo, però non v’è dubbio che molto si spiega con le scelte di investimento di risorse da parte delle Procure e tanta parte viene occupata da una giurisdizione “dell’affresco”, cioè una giurisdizione che fa sistema di ogni vicenda, pretendendo di dipingere il quadro sociale complessivo nel quale i reati sui quali si indaga sono inseriti: delegando sempre più la polizia giudiziaria ad accertamenti su fenomeni e non su specifici fatti.

Come detto l’intervento sospensivo concerne l’Appello (19% delle prescrizioni) e la fase di Cassazione (1%). Sconcertante quest’ultimo intervento perché l’effetto sarà il trascinamento in avanti della durata dei processi in quest’ultima fase, incidendo così sulla ragionevole durata, senza che vi fosse un’impellenza derivante dai dati statistici. Anzi.

A questo meccanismo si accompagna per alcuni delitti, quelli di corruzione in primis, ma anche l’art. 640 bis del Codice Penale, un raddoppio dei termini della prescrizione lunga, nel caso di interruzione (non è più un quarto, ma la metà). Ancora una volta il criterio che ha orientato la scelta poggia sull’allarme sociale che focalizza su questi delitti un’attenzione mediatica esasperata anche dallo scontro politico. Ne risulta una disciplina che presenta margini di irragionevolezza sui quali potrebbe essere invocato un intervento del Giudice delle leggi.

Venezia 27 ottobre 2017