Nell’agosto del 1976, Umberto Eco, su Il corriere della sera, ci ha confidato le emozioni sprigionate sul suo sistema sensoriale dal contatto con un pantalone in stoffa jeans :”…assaporavo dopo lungo tempo un pantalone che, anziché serrarsi alla vita, si appoggiava alle anche, dato che è proprio del blue-jeans far pressione sulla regione lombo-sacrale e sostenersi non per sospensione, ma per aderenza. La sensazione era, a distanza di tempo, nuova. Non facevano male, ma facevano sentire la loro presenza. Per elastica che fosse , avvertivo intorno alla seconda metà del mio corpo un’armatura.”
Secondo l’egregio indossatore, l’aderente pressione della corazza sulla regione lombo-sacrale conduce non solo all’identificazione organica dell’abito con la parte inferiore del corpo, ma anche a focalizzare l’ attenzione di chi l’indossa, e a creare un nuovo rapporto con l’esterno . “ Bene, coi nuovi blue-jeans la mia vita era tutta esteriore: io pensavo il rapporto tra me e i pantaloni, e il rapporto tra me coi pantaloni e la società circostante”.
Portamento e contegno, impressi sulla sua persona dal rigido indumento, sono rapportati all’esperienza delle donne, aduse a questo tipo di soggezione: “Ne ho ragionato a lungo, specie con consulenti del sesso opposto. Dalle quali ho appreso ciò che peraltro avevo già sospettato : per le donne esperienze del genere sono consuete perché tutti i loro indumenti sono sempre stati concepiti per conferire un portamento: tacchi alti, guèpières, reggiseni a stecca, reggicalze, magliette strette strette.
Ho pensato allora quanto nella storia della civiltà l’abito come armatura abbia influito sul contegno e di conseguenza sulla moralità esteriore”.

Ci sembra che queste valutazioni di Umberto Eco sul condizionante contatto tra l’abito/armatura e il corpo femminile abbiano ricevuto un’imprevista trasposizione in un processo penale svoltosi dopo circa un ventennio, avente ad oggetto il reato di violenza carnale: la valutazione della Suprema Corte sulle dichiarazioni accusatorie di una diciottenne, che sosteneva di essere stata violentata dal suo istruttore di guida, sembra cioè illuminata inconsciamente proprio dal pensiero dell’illustre filosofo. Snodo centrale della tesi assolutoria è stata l’aderenza sul corpo femmineo del rigido jeans, unita alla liberazione di una coscia dall’armatura, proprio nel momento dell’amplesso.

Parimenti censurabile è la sentenza allorché afferma che la P. fu realmente vittima della denunciata violenza carnale dato che è certo che durante l’amplesso aveva i jeans tolti soltanto in parte, mentre se fosse stata consenziente al rapporto carnale, avrebbe tolto del tutto i pantaloni che indossava .
Un tale rilievo non può condividersi perché sarebbe stato assai singolare che in pieno giorno(il fatto avvenne verso le 12-12,30) in una zona che sebbene isolata non era preclusa al traffico di persone, la P. si denudasse del tutto , ma perché era consenziente all’amplesso .
Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi la indossa.

Possiamo razionalmente ritenere che inconsapevolmente i cinque giudici abbiano fatta propria la regola di esperienza sul rigido e avvolgente indumento, notoriamente di difficile vestizione/dismissione, e che abbiano ricostruito e valutato il fatto giudiziario alla luce di questo capitolo della storia dell’abbigliamento giovanile: hanno cioè ritenuto che nel contesto di un’estemporanea congiunzione carnale di un corpo femminile corazzato in jeans, i protagonisti generalmente agiscono ad armi pari (alla potenziale supremazia della forza maschile può efficacemente contrapporsi la difesa dall’abito-armatura). Nell’interpretare, nel caso concreto, la parziale rimozione e la parziale nudità , sono approdati inevitabilmente alla seguente conclusione :
una gamba disarmata non può che essere il segnale della volontà della donna di ammainare il vessillo della resistenza e del desiderio di concedersi un amplesso non programmato ma comunque non sgradito;
l’armatura rimossa e la gamba nuda segnalate dalla stessa denunciante , secondo la logica argomentazione dei giudici superiori, sono necessariamente l’inequivoco segnale dell’abbandono del portamento difensivo e del passaggio dalla resistenza alla condiscendenza.

E’ bene ricordare che, nel percorso verso la verità giudiziaria, l’ assenza di prove oggettive della responsabilità o dell’innocenza (tipo perizia tecnico-scientifica, testimonianza disinteressata, documentazione fotografica, registrazione di voce e di immagini), consente al giudice di dare spazio interpretativo alle cosiddette massime di esperienza, cioè a regole cristallizzate su quanto generalmente accade in un contesto storico della comunità in cui essi vivono.
In funzione di integrazione, è lecito quindi fondarsi sul notorio, inteso come fatto che tutti conoscono o dovrebbero conoscere per propria nozione ed esperienza(con razionale e costituzionale esclusione di superstizioni, di dicerie, di pregiudizi di razza, di genere, di religione).
Qualora la massima sia radicata esclusivamente nel vissuto e/o nell’intimo pensiero del giudicante, si configura una semplice congettura, la cui efficacia argomentativa è insuscettibile di reale verifica e quindi di affidabile utilizzazione. Identico inquinamento conoscitivo si ottiene qualora il giudicante ricorra a una massima di un’esperienza superata e sostituita da altra regola, cristallizzata su un’esperienza aggiornata al vissuto collettivo.
Guida della decisione diventa allora un notorio esclusivo, intimo del giudice, che, nel ricostruire la storia dell’accusato e della vittima, nel vuoto del suo non sapere, della sua inesperienza, diventa facile preda dei suoi schemi morali, delle sue nevrosi, delle sue voci di dentro. Questa guida maldestra diventa ancora più pericolosa se si addentra proprio nella materia sessuale che “è uno dei più forti detonatori di quella miscela esplosiva che circola silente nelle fibre interiori di ogni giudice”.
L’origine intima e personale della massima d’esperienza usata dai giudici, inconsapevoli di aver esibito un superato frammento dell’esperienza del mondo e quindi una massima di inesperienza, sono ben scolpite dall’ironia di altro commentatore : “Verosimilmente i giudici cassazionisti per ragioni di età non hanno più molta dimestichezza con questo indumento tipicamente giovanile, e il tipo di jeans che essi ricordano corrisponde all’unico modello di pantalone stretto e aderente che era di moda molti anni addietro”.
Se avessero aggiornato la loro cultura in materia, avrebbero accertato che sul finire degli anni ’90 non tutti i jeans erano rigidi, stretti, aderenti. L’evoluzione di questo tipo di indumento, originariamente maschile e poi esteso all’uso dell’altro sesso, è rimasto ignoto nella memoria collettiva dei cinque componenti del collegio supremo ,che ha rispettato la superata regola cristallizzata sul blue-jeans rigido e stretto, avvertito sul corpo femminile come un’armatura, la cui caduta è segno di consenso e di gradimento.

Altra inventio di un “dato di comune esperienza”, in realtà intimo e foriero delle voci di dentro, è quello tratto dal corpo della vittima , in cui i giudici hanno messo in moto l’automatico meccanismo del sillogismo.
I componenti del collegio, così hanno scandito il proprio sapere empirico sulla violenza sessuale :
sono partiti , come premessa maggiore, dalla massima d’esperienza “è istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla”;
l’hanno rapportata alla premessa minore della fattispecie concreta: la mancanza sul corpo della donna di segni di colluttazione rende visibile l’assenza di opposizione allo stupro;
sono sfociati naturalmente nell’argomentazione conclusiva: la donna non è stata vittima di violenza.
In tal modo il giudice ha inventato a) una visione fisicamente bellica della violenza sessuale, incentrata esclusivamente su una brutale e lacerante aggressione fisica, b) una visione della libertà sessuale assurta a bene supremo da difendere con il sacrificio della sopravvivenza o quanto meno dell’incolumità fisica; c) un onere di documentata difesa del bene supremo , il cui adempimento condiziona il riconoscimento giudiziario dei ruoli di reo e di vittima.
“Nella creazione di questa massima spira un refolo di vento sessuofobico: di fronte a chi ti vuole violentare o ti opponi con tutte le tue forze o sei consenziente”.
Incorre nella macroscopica ignoranza della stessa fattispecie incriminatrice chi riserva il ruolo di vera e garantita vittima di uno stupro solo alla donna che si oppone con il suo corpo per poter documentare con le sue lesioni l’avvenuta resistenza. Il codice penale infatti ritiene sufficiente la minaccia o la violenza morale per la lesione dell’integrità sessuale, lesione che è realizzata non solo a seguito della supremazia fisica del reo , ma anche con la resa della vittima che subisce l’amplesso come danno minore.
La sentenza della Cassazione , nell’annullare la condanna per violenza sessuale, ha chiesto al giudice di rinvio una nuova valutazione dell’attendibilità della parte offesa, valutazione da effettuare “nel contesto socio-ambientale in cui è accaduto il fatto oggetto del giudizio.”

La corte di appello di Napoli, in sede di rinvio, con la sentenza 13.10.1999, ha definitivamente chiuso la storia del jeans pronunciando l’assoluzione dell’accusato di violenza sessuale perché il fatto non sussiste.
Eppure il carattere intimo e personale della regola sfociata nella consensuale svestizione era facilmente accertabile e smascherabile, mediante l’integrazione probatoria suggerita implicitamente dall’interrogativo di una saggio commentatore critico della sentenza della Cassazione : “Ma in sede di rinvio si sarà in grado di accertare il grado di aderenza dei jeans indossati dalla vittima ?” .
I giudici di appello hanno invece tirato dritto e hanno seguito il percorso tracciato dalle pseudo massime di esperienza inventate dalla Suprema Corte. : hanno quindi negato credibilità alla narrazione della giovane donna e hanno confermato che “nessun elemento, nessuna argomentazione logica si presentano risolutivi nel far propendere con tranquillità verso l’una o l’altra ricostruzione dei fatti”. Hanno cioè ribadito che
l’assenza di segni reciproci di violenza sui corpi dei copulanti escludeva l’uso di una vis atrox da parte dell’uomo, non potendo aver alcun rilievo l’ecchimosi (della dimensione di una lenticchia) sulla gamba destra della donna e due piccole lacerazioni, di cui una ancora sanguinante, accertate nell’immediatezza del fatto, nell’imene della fanciulla (la cui verginità è comunque riconosciuta dal giudice di rinvio conformemente a quanto rilevato dalla corte di appello di Potenza, in base a convincenti accertamenti clinici);
la tesi della sopraffazione fisica narrata dalla donna è priva di elementi oggettivi di riscontro, anche con riferimento alle modalità della ritenuta violenza sessuale, che sono state nuovamente inquadrate nella massima d’esperienza del jeans-corazza : la sessualità dell’indossatrice di un pantalone stretto e rigido non contempla nella comune esperienza coercizione, ma solo libera collaborazione, una volta che sia stata rilevata una sia pur parziale spoliazione.
Questa amorevole cooperativa gemmata dalla ricostruzione del supremo giudice e del giudice di rinvio non è risultata razionalmente smentita agli occhi dei deconcentrati giudici dalla sua naturale irrealtà, una volta che vi siano inseriti i reali protagonisti : è difficile credere che la vergine diciottenne di Muro Lucano liberamente abbia scelto, come primo partner della sua esperienza sessuale, un maturo padre di famiglia, di età superiore di ben ventisette anni, coniugato con figli , e abbia accettato, come prima alcova, l’auto della scuola guida di quest’ultimo.
Hanno ignorato la razionale tesi della sentenza di condanna – già illegittimamente cancellata dal giudice di legittimità- secondo cui la donna – consenziente all’amplesso – “ non avrebbe avuto alcun motivo di non mettersi in totale libertà per restare – invece- scomodamente con i pantaloni non del tutto sfilati. “
La rappresentazione del fatto sottoposto all’esame dei giudici di rinvio si arricchisce di un ulteriore protagonista di supporto alla radicale critica della narrazione della donna : nella sentenza conclusiva si pone in luce il principale ispiratore della disavventura giudiziaria dell’incolpevole seduttore: il padre della sedicente vittima.

Dagli atti traspare la figura di un padre premuroso e particolarmente legato (lapidaria è la frase della P. in ordine al rapporto con il genitore: “sapeva tutto della mia vita”)alla figlia (si pensi che è lui ad accompagnarla alla visita ginecologica e non, come sarebbe stato più normale, la madre), che immediatamente percepisce la stato di turbamento di Rosa, che qualcosa di poco piacevole è successo. La sottopone a un interrogatorio incalzante sino ad indurla…a rivelargli cosa era accaduto in mattinata.
Questa verità costellata di un sapere asfitticamente nato nelle aule e nelle menti giudiziarie si rafforza con la rappresentazione dell’anomala figura del padre che sa tutto sulla vita della figlia e con l’ulteriore degradazione della giovanissima Rosa, raffigurata come sottomessa al fascino dell’affascinante quarantacinquenne e ,successivamente, come marionetta del graffito accusatorio dell’indiscreto e intrigante genitore. Degradazione che non giunge a portarla sul banco dell’accusa e della punizione in virtù dalla benevolenza dei giudici di appello che danno provvidenziale rilievo alla trasparente distanza temporale ( dodici ore) tra il fatto amoroso e la presentazione della querela.
Si può infatti sostenere che ella non aveva alcuna intenzione di esternare ai genitori cosa le era successo (era più probabile che in caso di effettiva violenza si fosse confidata almeno con la madre, implorandone il silenzio o chiedendogli consigli), tant’è che solo in tarda serata dà al padre una diversa giustificazione del suo stato di turbamento, ed è il padre, come emerge nettamente dagli atti , che autonomamente decide di accompagnarla dai carabinieri, poi in ospedale e , quindi, in questura. Il ritardo della presentazione della querela è, pertanto giustificato dal fatto che solo in un secondo momento , in quanto indotta dal genitore, si determinò a farlo, e ciò esclude anche la costruzione callida e programmata dell’accusa calunniosa. La ragazza si è così trovata spiazzata di fronte alle insistenze del padre a cui ha riferito, come esposto, la versione più comoda, ed in ragione di tanto, affetta dalle contraddizioni illustrate dal tribunale.
E’ impossibile negare che questa gogna giudiziaria a cui oggettivamente è stata esposta la diciottenne ha pesantemente inciso sulla notorietà dei limiti della concreta uguaglianza di genere nella società e nelle pubbliche istituzioni.
Ancora una volta una donna si è presentata in un’aula di giustizia come persona che reclama – in nome del suo vissuto di sofferenza- il diritto di essere creduta e tutelata.
Ancora una volta è stata ridotta a personaggio perdente , a persona doppiamente offesa da chi l’ha fisicamente aggredita e da chi l’ha irrazionalmente giudicata.
Last but not least, la protagonista di questa storia ha corso il rischio di vivere la riedizione dell’errore giudiziario di collodiana memoria, in cui la persona offesa subisce un’ ingiusta punizione, in un paradossale sovvertimento del normale rapporto bene-male, colpevole- innocente, premio- castigo.