E’ proprio condivisibile l’ allarme ormai lanciato da molti. I vincitori dopo le elezioni del 4 marzo usano toni sovversivi, mettono in scacco il Presidente della Repubblica e i suoi richiami alla responsabilità e ai gravi pericoli della situazione. Situazione che si è esasperata nei mesi successivi, fino al gran rifiuto del Presidente nei confronti di un esecutivo ritenuto all’ insegna della realizzazione di politiche secessioniste nei confronti dell’ UE. Ma, per la situazione presente, responsabilità, gravi, si trovano anche nei  presupposti: nel lungo silenzio del Paese prima degli avvenimenti ultimi. Silenzi di settori imprenditoriali, sindacati, organizzazioni sociali. E’ poi speciale la responsabilità del sistema della informazione: democrazia è consapevolezza, ci ricorda Paolo Macry (Il mattino, 9 maggio). Vi sono stati compiacenze, ammiccamenti, se non vezzeggiamenti, di chi ha quella responsabilità. E non si parla della rete, ma dell’ insieme , ancora efficacissimo, della stampa, delle reti televisive e dei “Signori del talkshow”. Tutto ciò contribuisce potentemente a minare ogni possibilità di consapevolezza negli elettori. E dubito dell’ efficacia di qualche recente ripensamento.

Se questa è la situazione, un pensiero, a margine, di chi si è sempre occupato del braccio più violento dello Stato: quello che si esercita su fondamentali diritti civili.

E’ vero, la storia non si ripete mai eguale a sé stessa, e ha forse ragione Marc Ferro (L’ aveuglement. Une autre histoire de notre monde, Tallandier, Paris) quando parla di cecità dello storico nella comprensione del mondo attuale e nella predizione.

Tuttavia, se si ragiona sulle forme di democrazia e sul tema del consenso in democrazia, la voce che può esprimere il penalista nella narrativa pubblica forse consente di ripercorre la direzione di senso – ma si tratta di situazioni certamente non assimilabili – di avvenimenti passati, in questo caso della storia contemporanea.

Osserviamo così, in un passato non troppo remoto, un democrazia costituzionale, basata sulla rappresentanza di partiti, che fronteggia una grave crisi economica – colpiti soprattutto i ceti medi – una imponente disoccupazione, l’ affermarsi di un esasperato nazionalismo. Il sistema parlamentare è bloccato da veti provenienti da due contrapposti estremismi, che paralizzano le forze di centro e della sinistra moderata. L’ impossibilità di formare un governo che reagisca alla crisi anche con misure impopolari, conduce al ripetersi di consultazioni elettorali: nel giro di tre anni, cinque consultazioni (una delle quali per l’ elezione diretta del presidente della Repubblica, prevista nella costituzione di Waimar).

E’ infine il leader di  quello che, fino a pochi anni prima, era un piccolo movimento estremista, a vedersi affidare il governo, con il sostegno di forze conservatrici, convinte di poterne controllare le pulsioni eversive.

Successivamente irresistibile ne fu l’ ascesa: in ciò  un fattore decisivo venne svolto dal dominio istaurato sulla comunicazione: affida ad un giovane, fallito aspirante drammaturgo, successivamente spregiudicato giornalista, colto quel tanto da essere conosciuto come “il dottore”. Egli  fu tuttavia capace, con il suo stile aggressivo e non certo improntato alla diffusione della consapevolezza e del vero, di assumere il controllo di tutta l’ informazione, della vita culturale e sociale di una nazione: per l’ affermazione della “morale” di una politica del terrore basata, sul binomio amico/nemico.

Lasciamo ora i silenzi compiacenti dei media che ci hanno accompagnato alla situazione attuale e soffermiamoci invece sulla testata, ininterrotta ed esplicita cassa di risonanza dei nostri populisti. L’ idea presidenziale di un governo neutrale che ritardi una immediata replica delle consultazioni – anche per i molti pericoli che correrebbero le nostre istituzioni, la loro credibilità internazionale e, soprattutto, la nostra economia  – fu subito respinta con vigore: ad esempio nei titoli di testa del Fatto Quotidiano del 9 maggio, nell’ editoriale di spalla di Travaglio, si escludeva con fervore questa possibilità. Non vi può essere neutralità in tema di giustizia, di nomine, di RAI e fisco (IVA). E il giorno precedente, lo stesso giornalista illustrava progetti precisi: quanto meno a proposito di giustizia penale, squalificando con asprezza un magistrato che in un’ intervista si era permesso di criticare le idee, non proprio garantiste, del dott. Davigo. In coerenza con il programma sventolato per il governo del cambiamento. Non meno acido l’ attacco al vertice della RAI, accusato di stretta osservanza “renziana”.

La propaganda e il potere di punire, dunque, e subito.

Qualche idea sul ministro della giustizia di un governo giallo-verde ce la siamo già fatta, ma forse occorre cominciare a pensare a quello della propaganda.

Gaetano Insolera