Con la sentenza 13 luglio 2017, la corte di assise di Lecce ha, tra l’altro, condannato a severe pene detentive alcuni imprenditori per il delitto di riduzione in servitù dei braccianti agricoli e alcuni caporali per intermediazione illecita nei rapporti di lavoro. La corte di assise, nella ricostruzione delle condizioni disumane imposte ai braccianti, si è soffermata anche su uno sciopero e su una manifestazione di protesta dei lavoratori nelle strade di Nardò, nell’estate del 2011, e sull’intervento dei sindacati per risolvere la controversia sullo sfruttamento illecito dei dipendenti. Intervennero anche le forze di polizia per tutelare l’ordine pubblico ingiungendo ai manifestanti di porre fine all’illecito assembramento che ostacolava la circolazione stradale. Dallo sciopero non sortirono consistenti effetti positivi per le condizioni dei lavoratori, ma neanche immediate reazioni dei poteri dello Stato per punire gli autori dell’illegale blocco della circolazione stradale. Non risulta cioè che sia stato avviato un procedimento, in via amministrativa, per punire con una multa i lavoratori che, manifestando la loro protesta e le loro rivendicazioni , avevano ostacolato la circolazione di auto e pedoni con il cosiddetto picchettaggio stradale .
E’ bene ricordare che questa modalità di esercitare il dissenso politico e sindacale è stata oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore, che nel dopoguerra su iniziativa del ministro dell’interno Mario Scelba, aveva introdotto una normativa penale, diretta a frenare le contestazioni e le rivendicazioni diffuse nel nuovo clima di democrazia. Nell’art. 1, comma 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66 erano previsti nuovi tipi di reato, tra cui il blocco stradale: era quindi punito con la pena della reclusione da uno a sei anni chiunque avesse impedito o ostacolato la circolazione di veicoli e pedoni; la pena era raddoppiata se il fatto fosse commesso da più persone, anche se non riunite. E’ noto che il blocco stradale è commesso da più persone principalmente in occasione di scioperi o di manifestazioni di protesta, tanto da essere considerato una modalità dell’esercizio di alcuni diritti fondamentali di un sistema democratico. Pertanto la sua depenalizzazione è stata razionalmente interpretata come applicazione del principio del diritto penale minimo, secondo cui la repressione penale è riservata alle condotte lesive dei diritti e dei valori primari dell’individuo, nel quadro di un tendenziale garantismo, che preferisce la pena pecuniaria rispetto a quella detentiva, specialmente nel campo delle trasgressioni commesse nell’ambito di lecite rivendicazioni e disapprovazioni.
Pertanto il Parlamento, con l’ art. 17 del d.lgv 30 dicembre 1999 n. 507, ha inserito, nell’ art. 1 del d.lgv n.66 del 1948( decreto Scelba), il comma 1 bis, che prevedeva la depenalizzazione dell’occupazione stradale e la sua punizione con una sanzione amministrativa.[1]
La protesta degli scioperanti manifestata nelle strade di Nardò avrebbe quindi consentito allo Stato – in caso di paradossale severità nei confronti degli scioperanti- di punirli con una multa.
Bei tempi.
Recentemente siamo tornati alla severità del ministro Scelba: una ripetizione di questo modo di esercitare il diritto di sciopero o di manifestare dissenso e proteste, dall’inizio di ottobre, comporta di nuovo per tutti( lavoratori, studenti, cittadini, immigrati) una reazione dello Stato ben più severa. Con l’art. 23 del decreto legge 5.10.2018 n.113, il comma 1 bis del è stato abrogato ed è stato nuovamente introdotto il reato di blocco stradale, in conformità ad una strategia repressiva diretta, particolarmente, sulle modalità di esercizio di diritti previsti dalla Costituzione (diritto di sciopero, art. 40 e diritto di manifestazione del pensiero, art. 21).[2]
Prima dell’intervento della magistratura, e quindi prima di indagini e di sanzioni nell’ambito di rituali accertamenti, è stato programmato dall’attuale legislatore, specialmente in momenti di tensione sociale, un più ampio potere di immediata coercizione nei confronti di scioperanti e manifestanti, potere affidato ad una polizia già autrice di violenze di eclatante illegittimità :la storia e la cronaca documentano atti lesioni anche letali al di fuori di norme giuridiche e di regole di umana civiltà.
Che si tratti di un programmato incremento di violenza statale è confermato dall’ ampliamento – parzialmente contestuale – di uno strumento capace di causare la sofferenza e anche la morte di chi si trovi in una situazione di contrasto con agenti di pubblica sicurezza. Si tratta della pistola elettrica, strumento di violenza, di intimidazione, di anticipata punizione, ben più pericoloso e dannoso dell’antico manganello.
E’ bene a questo punto ricordare che è stata introdotta dal legislatore di centro sinistra una normativa originariamente diretta a fronteggiare la violenza manifestata negli stadi di calcio e in occasione comunque di competizioni sportive (art. 8 del d.l. 22.8. 2014, n.119).
Sono poi anche introdotte innovazioni che possono dare stimolo e copertura ad un ulteriore tipo di violenza, nell’esercizio di generali funzioni di ordine pubblico, attraverso l’uso di un nuovo strumento di offesa, potenzialmente letale. Il 29 settembre 2014 le commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera hanno infatti approvato un emendamento al suindicato decreto legge, in base al quale le forze di polizia sono autorizzate all’uso del taser contro i partecipanti a manifestazioni ed ad eventi sportivi.
Tale emendamento ha aggiunto all’articolo 8 il comma 1 bis, che dispone “con decreto del Ministro dell’interno, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’Amministrazione della pubblica sicurezza avvia, con le necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo princìpi di precauzione e previa intesa con il Ministro della salute, la sperimentazione della pistola elettrica Taser per le esigenze dei propri compiti istituzionali “. Posto che la conversione è avvenuta con la legge 17.10.2014 n. 146 (governo Renzi), la sperimentazione della pistola taser è stata avviata dal governo successivo alle ultime elezioni, limitatamente a sei città italiane, Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia(circolare emanata il 20 marzo 2018 dalla Direzione anticrimine del ministero dell’interno ); è stata poi ampliata, con il decreto emanato il 4 luglio 2018 dal ministro Salvini, a tutti gli aspetti dell’ordine pubblico di 11 città: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia e Brindisi. La sperimentazione -inizialmente prevista per la polizia nazionale ( Polizia di Stato, Arma dei carabinieri, Guardia di Finanza)- con l’art. 19 del decreto legge 4.10.2018 n.113(cd decreto Salvini), è stata ulteriormente estesa alla polizia urbana delle città con popolazione superiore a centomila abitanti( precisamente a due vigili urbani, qualificati come agenti di pubblica sicurezza) .
Altra modifica è prevista dal comma 5 dell’art. 19 del medesimo decreto legge , che ha sostituito le parole della pistola elettrica Taser con le parole “dell’arma comune ad impulsi elettrici”.
Il periodo di sperimentazione e di addestramento è della durata di sei mesi, all’esito del quale l’assegnazione diventa effettiva e definitiva.
Questo crescendo dell’arricchimento di strumenti di offesa di tutori dell’ordine nazionali e locali già dotati di armamenti vari, non sempre utilizzati in maniera lecita, pone l’inquietante interrogativo sul fine di questa estesa chiamata alle armi, sia pure circoscritta ad un’arma comune ad impulso elettrico ( alias, pistola elettrica, pistola a elettroshock, dissuasore elettrico); quale sia –al di là dei proclami di ordine e legalità- la reale funzione ad essa assegnata dall’attuale governo e dalle forze politiche ed economiche che lo sostengono. [3]
Più precisamente va valutato –parafrasando la definizione di tortura delineata dalla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984– se questa nuova arma possa costituire strumento di tortura, cioè idoneo a causare ad una persona, per mano di un agente di pubblica sicurezza o di un suo collaboratore, dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, finalizzate a punirla per un atto che ha commesso o è sospettato di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressione su di lei…o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione
Per dare adeguata risposta al quesito, va analizzata in altra sede cosa sia la pistola ad impulso elettrico e in quale tradizione di violenza statale possa essere inquadrata.
[1] Avevano conservato rilevanza penale le altre infrazioni, previste dall’art. 1 del decreto legislativo n. 66 del 1948 ( blocco di strada ferrata, ostacolo alla navigazione).
[2] La condanna definitiva per tutti i delitti di blocco stradale e di blocco ferroviario impedirà l’ingresso del cittadino straniero, in base alla nuova disposizione, inserita dal medesimo art. 23, nell’art. 4 co. 3 della legge 25.7.1998, n.286 (cd legge Bossi-Fini).
[3] In questa confusa e pericolosa ascesa dell’egemonia delle idee reazionarie e fasciste, merita attenzione il messaggio della leader di Fratelli d’Italia, che in un tweet , riportato da Il Fatto Quotidiano del 13 luglio 2018, ha sostenuto l’esigenza di dare mano libera alle forze di polizia, per consentire di far bene il loro lavoro, anche abolendo il reato di tortura. Il tweet è stato pudicamente ritirato, ma l’allarme rimane.