- Magistratura Democratica- La corrente di Magistratura Democratica, tra tutte le esperienze associative di critica e rifondazione dei ruoli professionali, è stata indubbiamente la più matura, la più duratura, quella il cui esempio è stato riprodotto dalle magistrature di molti altri paesi – in Europa (dalla Francia alla Germania, dalla Spagna al Portogallo) e in America Latina – che l’hanno assunta come modello; perché infine, in Italia, MD ha esercitato un’influenza profonda sull’intera istituzione giudiziaria e ha contribuito in maniera decisiva a cambiare il volto e il ruolo della giurisdizione nel sistema politico. Grazie all’assimilazione di molte idee di MD – che benché fortemente minoritaria, soprattutto nei suoi primi anni, divenne presto culturalmente egemone all’interno dell’Associazione Nazionale dei magistrati – la magistratura italiana è radicalmente cambiata, avendo maturato un costume di indipendenza dal potere politico e da quella che allora si chiamava l’”alta magistratura” ignoto al vecchio mondo giudiziario e, soprattutto, avendo assunto la Costituzione come fonte primaria della propria giurisprudenza e perciò della legittimazione della giurisdizione.
Grosso modo, mi pare, la storia di MD può essere divisa in tre fasi: la preistoria, dalla nascita del gruppo al 1969, contrassegnata dalla scoperta della Costituzione e dal primo incrinarsi della vecchia concezione meccanicistica e formalistica della giurisdizione; gli anni dal 1969 al 1977, che vanno sotto il segno della “contestazione del ruolo” e della “rivolta contro il formalismo”; i 40 anni successivi, fino ai giorni nostri, caratterizzati dall’opzione per il garantismo, cioè dalla difesa delle garanzie dei diritti fondamentali, che concepimmo come le leggi del più debole in alternativa alla legge del più forte che sempre prevale in loro assenza.
- La preistoria (1964‑1969): la scoperta della Costituzione – Per comprendere a fondo la prima fase della storia di MD e il suo ruolo nel rinnovamento della magistratura italiana, è indispensabile ricordare cos’era la magistratura nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, quando il gruppo nacque, nel 1964, e quando esso, nel dicembre del 1969, fu rifondato a seguito della secessione della sua componente moderata all’indomani della strage di piazza Fontana.
La magistratura di quegli anni – quale la ricordo perfettamente per averla allora conosciuta e perciò contestata – era un’istituzione totalmente diversa da quella attuale. Era, nella sostanza, un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello Stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili. Questa ideologia fu da noi messa in crisi negli anni Sessanta, simultaneamente al rinnovamento che allora promuovemmo della cultura giuridica. L’atto di nascita della nuova cultura democratica e costituzionale della giurisdizione fu il congresso dell’Associazione Nazionale dei magistrati svoltosi a Gardone nel 1965, nel quale furono definite le quattro principali coordinate, tra loro connesse, della cultura dei giudici progressisti: 1) la critica dell’ideologia del carattere puramente tecnico e neutrale della giurisdizione; 2) la scoperta della costituzione come norma fondamentale e della virtuale incoerenza tra i valori da essa immessi nell’ordinamento e le leggi ordinarie, ancora in gran parte fasciste; 3) la scelta, assunta come doverosa, a sostegno dei valori costituzionali nell’interpretazione e nell’applicazione della legge; 4) la totale indipendenza della giurisdizione sia da poteri esterni che da condizionamenti interni all’ordine giudiziario.
- La rivolta contro il formalismo e la contestazione del ruolo (1969‑1977) – Queste quattro coordinate erano già tutte tracciate, nella cultura dei giudici di sinistra, già prima del 1968. E valevano a disegnare la giurisdizione, almeno nel suo modello normativo, come momento certamente terzo ma non neutrale, imparziale ma non a‑valutativo né a‑politico, indipendente benché – anzi, proprio perché – consapevole della discrezionalità interpretativa e della responsabilità sociale delle scelte di valore inevitabilmente richieste alla funzione giurisdizionale.
La stagione sessantottesca segnò la scoperta della politica e, con la politica, la scelta di sinistra e, con la scelta di sinistra, la scoperta del marxismo. Ma l’opzione per il marxismo fu soprattutto un’opzione politica, legata alla tradizione della sinistra e al radicalismo della nuova sinistra, assai più che una vera adesione teorica: anche perché, come sappiamo, il marxismo non ha mai prodotto una teoria del diritto e dello Stato, ma solo una critica dell’uno e dell’altro. Di questa critica, MD recepì essenzialmente tre idee: a) la critica della falsa uguaglianza, ossia del carattere formale dell’uguaglianza giuridica e della sua funzione di veicolo, per il tramite dello scambio di equivalente, della disuguaglianza materiale e dello sfruttamento del lavoro; b) la critica della neutralità del diritto e la consapevolezza del suo condizionamento da parte dei rapporti sociali ed economici; c) la critica della cultura giuridica ufficiale, che dietro la sedicente neutralità scientifica svolgeva un ruolo di legittimazione e sostegno degli assetti sociali esistenti. Il marxismo, in breve, generò soprattutto un punto di vista esterno al diritto. Esso impresse alla scelta di campo per la Costituzione il carattere di una scelta di classe.
Gli argomenti teorici con cui quella scelta fu da noi sostenuta all’interno della magistratura fu infatti la centralità associata alla Costituzione repubblicana e al suo art. 3 capoverso sul “compito della Repubblica” di “rimuovere gli ostacoli” che si oppongono all’uguaglianza e ai diritti fondamentali. Fu la scoperta, maturata con il ‘68 e il ‘69, di quello che chiamammo il “punto di vista esterno” all’ordinamento, cioè il punto di vista della società e in particolare dei suoi soggetti più deboli. Il riferimento ai diritti fondamentali sanciti dalla costituzione si tradusse infatti, grazie all’opzione marxista, nel primato dei soggetti che di quei diritti sono i titolari insoddisfatti: delle loro istanze di uguaglianza e delle loro aspettative di tutela, le quali venivano così a configurarsi come il luogo “esterno” e la fonte etico‑politica di interpretazione e per così dire di inveramento dei valori costituzionali.
In questo modo, punto di vista interno della costituzione e dei diritti in essa garantiti e punto di vista esterno dei soggetti deboli e delle loro istanze di garanzia venivano a saldarsi, capovolgendo l’immagine tradizionale del ruolo del giudice: da ruolo di conservazione in ruolo di contestazione e trasformazione dell’ordine giuridico esistente. La figura del giudice fu così ripensata come organo non più dello Stato ma della società, tutore e garante dei diritti dei cittadini contro i poteri non solo pubblici ma anche privati, indipendente perché contro-potere, collegato alla sovranità popolare per il tramite della garanzia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti come diritti di tutti.
- L’opzione per il garantismo – Infine la terza fase, dagli anni Ottanta in poi, è stata quella dell’opzione per il garantismo: il garantismo penale, ma anche il garantismo sociale; il diritto penale minimo ma anche lo stato sociale massimo. Il garantismo che teorizzammo allora dentro e fuori Magistratura Democratica nacque sul terreno del diritto e del processo penale. Rappresentò una replica alla legislazione e alla giurisdizione d’emergenza sviluppatesi contro il terrorismo. Fu una replica che venne dall’interno di MD e da settori del tutto minoritari della cultura giuridica e che non solo non trovò sostegno, ma fu al contrario incompresa e respinta dalla cultura politica di sinistra che cominciava allora ad avvitarsi in una sterile crisi ideale e culturale. I valori giuridici e politici che lo animarono – nelle difficili battaglie in difesa della legalità nei processi di terrorismo e nella denuncia dei profili d’incostituzionalità della legislazione d’emergenza – furono le garanzie del cittadino contro l’arbitrio e il rispetto dei diritti della persona, intesi come valori fondanti dell’ordinamento e fonte primaria di legittimazione politica oltre che giuridica dello Stato e ancor più del potere giudiziario. In questo senso il garantismo recepiva il duplice orizzonte assiologico che era stato alla base delle scelte originarie di MD: il primato del punto di vista esterno cui i diritti fondamentali rimandano e, all’interno dell’ordinamento, del punto di vista della Costituzione che quei diritti sancisce e garantisce.
Ma il garantismo è anche diventato qualcosa di più e di diverso dal sistema delle garanzie penali e processuali. Si è sviluppato, ben al di là del diritto penale, come una teoria nuova della democrazia, allargata alla garanzia di tutti i diritti fondamentali: la teoria della democrazia costituzionale, cioè dello stato costituzionale di diritto in senso forte, che ha consentito una mediazione di tipo nuovo tra formalismo e sostanzialismo, tra forme giuridiche e valori, tra razionalità formale e razionalità sostanziale e, sul piano della teoria politica, tra liberalismo e socialismo. Il suo postulato è ancora, come nel positivismo giuridico classico, il principio di legalità. Ma la legalità teorizzata dal garantismo come propria dello stato costituzionale di diritto è una legalità nuova e complessa, condizionata da regole non solo formali che ne determinano il vigore ma anche sostanziali che ne condizionano la validità. Con le costituzioni rigide, infatti, sono le scelte medesime con cui il diritto è programmato – il suo “dover essere” e non solo il suo “essere”, la sua sostanza e non solo la sua forma, i valori etico‑politici ad esso imposti dalla Costituzione e non solo le procedure che ne regolano la produzione – che sono state positivizzate a livello costituzionale in forma di diritti fondamentali, quali parametri di validità del diritto prodotto e, al tempo stesso, quali criteri d’invalidazione e delegittimazione del diritto con essi in contrasto.
In questo senso, a me pare, il garantismo può ben essere identificato con la dimensione sostanziale della democrazia. Se infatti la democrazia politica riguarda la sfera della discrezionalità politica, cioè del decidibile, la democrazia sostanziale è la sfera del non decidibile che e del non decidibile che non, cioè dei limiti e dei vincoli imposti ai contenuti delle decisioni politiche, anche di maggioranza, dalle norme sostanziali della costituzione che sanciscono i diritti fondamentali di tutti stabilendo i confini della sfera di ciò che è discrezionalmente decidibile: ciò che nessuna maggioranza può decidere, cioè la lesione o restrizione dei diritti fondamentali, e ciò che qualunque maggioranza deve decidere, cioè l’attuazione di tali diritti e in particolare dei diritti sociali. La legalità costituzionale teorizzata dal garantismo è precisamente questo diritto sul diritto che esclude ogni presunzione aprioristica di legittimità del diritto vigente. Equivale all’insieme dei diritti fondamentali, che impongono non solo l’invalidazione del diritto illegittimo con essi in contrasto ma anche la loro attuazione. Teoria del diritto e giurisprudenza ne risultano investiti di un ruolo critico e riformatore: i loro temi privilegiati sono per l’appunto il diritto e il potere illegittimi, quali provengono dalla virtuale divaricazione tra il diritto sul diritto e il diritto medesimo, tra le norme che disciplinano i pubblici poteri e le loro violazioni da parte dei titolari di questi medesimi poteri.
- Magistratura Democratica all’origine di un rinnovamento della cultura giuridica – Domandiamoci a questo punto: qual è il ruolo storico svolto da MD e cosa ne resta oggi? Io credo che esso sia consistito nel contributo allo sviluppo di una cultura giuridica e politica che ha identificato nel costituzionalismo garantista, quale sistema di limiti e di vincoli a tutti i poteri, sia pubblici che privati, la principale difesa nei confronti della loro degenerazione in poteri selvaggi, lesivi dei diritti fondamentali delle persone. E’ una cultura oggi minoritaria, a causa dei populismi dominanti, ma proprio per questo più che mai preziosa quale argine alle derive autoritarie del ceto politico, sempre più immemore dei “mai più” al fascismo e ai razzismi formulati con la nostra Costituzione.
Il costituzionalismo garantista ha mutato il ruolo della cultura giuridica: non più la semplice descrizione e applicazione del diritto esistente promossa dal vecchio metodo tecnico-giuridico, bensì la critica della sua illegittimità e la sua progettazione sulla base dei principi di giustizia – l’uguaglianza, i diritti fondamentali, la dignità delle persone – stipulati nelle carte costituzionali. Si è così prodotto un fenomeno singolare. E’ in atto, in Italia e in gran parte del mondo occidentale, una crisi regressiva della politica. La politica odierna, in molte delle nostre democrazie, è diventata impermeabile alle domande sociali di giustizia e ha ribaltato il proprio ruolo di governo dell’economia, assoggettandosi ai poteri economici e finanziari e aggredendo lo stato sociale e i diritti alla salute, all’istruzione e alla previdenza in ossequio alle direttive dei mercati.
Ebbene, a questa abdicazione della politica alle sue tradizionali funzioni di tutela degli interessi di tutti e di regolazione e controllo dei poteri economici e finanziari, ha fatto riscontro un fenomeno straordinario: un decisivo progresso delle istituzioni giudiziarie nel loro ruolo di garanzia secondaria dei diritti fondamentali. A causa del discredito della politica, della sua subalternità ai mercati e della sua distanza dalla società, le domande di giustizia vengono rivolte in misura crescente al potere giudiziario, sollecitato a intervenire dalle violazioni legislative, amministrative e contrattuali dei diritti in tema di lavoro, di ambiente, di tutela dei consumatori, di questioni bioetiche e di abusi di potere.
Assistiamo così – in gran parte delle democrazie occidentali – a un singolare paradosso: da un lato al processo decostituente di progressiva erosione dello stato sociale e delle garanzie primarie dei diritti fondamentali; dall’altro al simultaneo rafforzamento del ruolo garantista degli organi della giurisdizione e allo sviluppo di una scienza giuridica progressista impegnata nella difesa dei principi costituzionali. In passato, e più che mai nel nostro lungo Sessantotto, avveniva esattamente il contrario. Era la politica il luogo della trasformazione della società in senso progressivo. Era la legislazione che innovava il diritto vigente, costruendo lo stato sociale e introducendo o rafforzando le garanzie dei diritti fondamentali. La giurisdizione, al contrario, aveva un ruolo conservatore, quando non apertamente reazionario. E lo stesso poteva dirsi della scienza giuridica. Oggi il rapporto tra diritto e politica, tra giurisdizione e legislazione, tra cultura giuridica e cultura politica si è paradossalmente ribaltato: mentre la giurisdizione, sostenuta da una cultura giuridica in gran parte informata ai principi costituzionali, svolge un ruolo di tutela dei diritti, la politica e la legislazione svolgono il ruolo opposto di aggressione e restrizione dei diritti, non attuando ma al contrario riducendo le loro garanzie primarie. Non a caso MD, l’Associazione Nazionale Magistrati e la maggioranza dei giuristi si schierarono in difesa della Costituzione contro i tentativi di revisione costituzionale promossi prima dalla destra nel 2005 e poi dal Pd di Renzi nel referendum dell’anno scorso.
Le ragioni di questo progresso della giurisdizione, e in generale della cultura giuridica, e dell’opposto regresso della legislazione e della cultura politica sono molteplici. La prima è il diverso tipo di professionalità: i giudici, la cui funzione è applicare il diritto, prendono il diritto, a cominciare dalle Costituzioni, assai più sul serio dei politici; e lo stesso fanno i giuristi, nel loro lavoro esplicativo del diritto vigente e inevitabilmente critico dei suoi profili di incostituzionalità, che al pari dei giudici avvertono come vincolanti, perché consistenti in norme di diritto positivo a tutte le altre sopraordinate, i principi e i diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. Simultaneamente la politica ha subito il processo opposto. A causa, di nuovo, di un suo tratto professionale – l’abitudine alla mancanza di limiti, oggi favorita dalla sua distanza dalla società – essa è sempre meno disposta ad accettare i vincoli costituzionali; e soprattutto a causa, oggi più che mai, dell’idea populista che la democrazia consista nell’onnipotenza della maggioranza, della perdita di memoria dei mai più pronunciati nella stagione costituente seguita alla seconda guerra mondiale e del conseguente declino dei principi costituzionali dai suoi orizzonti programmatici.
La seconda ragione consiste nell’indipendenza istituzionale della giurisdizione e in quella intellettuale della scienza giuridica, o almeno delle sue componenti più progressiste, e, al contrario, nella dipendenza, nell’odierno mondo globalizzato, della politica dai mercati, cioè dai poteri economici e finanziari sviluppatisi fuori dei confini nazionali. La politica odierna, ripeto, non è solo impermeabile alle domande sociali di giustizia, ma ha ribaltato il proprio ruolo di governo dell’economia, riducendo le garanzie dei diritti sociali alla salute e all’istruzione e dei diritti dei lavoratori in attuazione delle pressioni dei poteri economici e finanziari. E’ la “governabilità”, che vuol dire semplificazione e verticalizzazione del sistema politico, emarginazione del Parlamento, crollo della rappresentanza, mani libere nell’aggressione ai diritti sociali e del lavoro, onnipotenza della politica nei confronti della società e dei diritti delle persone imposta dalla sua impotenza e subalternità all’economia e alla finanza. Aggiungo che questa regressione della politica sta provocando, in Italia, la regressione morale, intellettuale e culturale di gran parte della società, a causa del contagio che sempre accompagna l’immoralità delle pratiche di governo: una regressione che si manifesta nella sfiducia, nella depressione, nella rabbia, nell’odio, nella paura, nel crollo della solidarietà, nella generale aggressività e nell’assunzione dell’interesse personale e del denaro come unici valori.
- L’insegnamento del Sessantotto. Per una rifondazione della politica – Contro questa involuzione, la sola risposta possibile è oggi la difesa della Costituzione – dei principi dell’uguaglianza e della dignità delle persone, dei diritti fondamentali di libertà e sociali e delle loro garanzie – come patto sopra-ordinato alla politica che dal suo rispetto e dalla sua attuazione trae la propria ragion d’essere. E’ questo impegno a prendere la Costituzione sul serio il lascito maggiore dei momenti più alti dell’esperienza di MD: l’idea che il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali sono la fonte della legittimazione democratica di tutte le nostre istituzioni e il senso nuovo, e aggiungo il fascino, che il costituzionalismo e il garantismo conferiscono alla politica nella costruzione della democrazia, ove quei principi siano da essa assunti come vincolanti.
Ma a questo scopo non è sufficiente una cultura politica informata al progetto costituzionale. E’ necessario, precisamente – e ripropongo qui una tesi che sostengo da tempo – una rifondazione dei partiti quali organi della società, luoghi di effettiva formazione della volontà popolare, titolari delle funzioni di indirizzo politico e perciò in grado, grazie alla loro alterità rispetto alle istituzioni pubbliche, di selezionare e orientare i loro rappresentanti istituzionali e di chiamarli a rispondere del loro operato. E’ questa prospettiva che la riflessione teorica sulla stagione sessantottesca è in grado ancor oggi di suggerirci. Il ‘68 è stato una grande esperienza di politicizzazione della società. Si è caratterizzato come esercizio di massa delle libertà fondamentali. I movimenti di allora hanno rivendicato, promosso e praticato il primato della società sulle istituzioni, delle lotte sociali sulla politica, delle persone in carne ed ossa sugli apparati, dei rappresentati sui rappresentanti. E’ perciò la rifondazione della politica attraverso il radicamento dei partiti nella società e nelle lotte sociali – in autonomia e perfino in virtuale opposizione rispetto alle rappresentanze istituzionali e ai pubblici poteri – il principale, prezioso insegnamento che oggi più che mai ci proviene dalla stagione sessantottesca.