di Alessandro Diddi
Il c.d. Tribunale dei ministri di Catania – l’organo inquirente che, ai sensi del combinato degli artt. 7 e 11 legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, è chiamato a svolgere le indagini per i reati commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni – in data 23 gennaio 2019 ha trasmesso al Senato una richiesta di autorizzazione per procedere, nonostante la precedente richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica presso il medesimo tribunale, nei confronti del Ministro dell’Interno per il reato di sequestro di persona pluriaggravato in relazione ai noti fatti concernenti la gestione della fase di sbarco dei migranti raccolti dalla motonave della Guardia Costiera italiana U. Diciotti.
La questione approda in Parlamento dopo che ad agosto 2018 la Procura della Repubblica di Agrigento aveva aperto un fascicolo poi inviato, ai sensi dell’art. 6 della l. cost. 1/1989, al Tribunale dei Ministri di Palermo, il quale a sua volta disponeva – dopo aver escluso la rilevanza penale dei fatti commessi tra il 19 ed il 24 agosto 2018 (allorquando, cioè, le autorità italiane avevano avvistato il barcone dei migranti in balia del mare) e, dunque, declinato la propria competenza ratione loci – la trasmissione del procedimento al tribunale dei Ministri di Catania in relazione a quanto accaduto nei giorni immediatamente successivi a quella data.
Come noto, dopo che il 19 agosto 2018, la motonave della Guardia Costiera italiana era approdata al porto di Catania, il Ministro dell’Interno, in varie dichiarazioni rilasciate (v., tra le tante, quella riportata sull’Huffingtonpost del 24 agosto 2018: “per quanto mi riguarda non sbarca nessuno. Abbiamo già dato”), era intervenuto per impedire lo sbarco dei migranti, cosicchè per circa una settimana (dal 19 fino al 25 agosto 2018), le 177 persone migranti raccolte in mare sono state costrette a permanere sulla motonave.
La vicenda si snoda lungo un groviglio di questioni di carattere giuridico e solleva vari interrogativi.
Premessa la natura ministeriale dell’illecito (da qui la competenza funzionale del tribunale dei Ministri), l’autorità giudiziaria procedente ipotizza che la permanenza dei migranti sulla motonave abbia integrato il reato di sequestro di persona.
La fattispecie base prevista dall’art. 605 c.p., cui devono aggiungersi le numerose aggravanti individuate dall’autorità procedente, consistenti nel fatto che l’autore del reato è un pubblico ufficiale ed in quello che la condotta ha riguardato anche persone minorenni, sanziona con la reclusione da sei mesi a otto anni la condotta di chiunque privi taluno della libertà personale. Rileva osservare, peraltro, che secondo gli orientamenti consolidati della giurisprudenza, il delitto de quo è integrato ogni volta che la vittima sia privata della libertà fisica e di locomozione, sia pure non in modo assoluto, per un tempo apprezzabile, a nulla rilevando la circostanza che il sequestrato non faccia alcun tentativo per riacquistare la propria libertà di movimento, non recuperabile con immediatezza, agevolmente e senza rischi (Cass. pen., Sez. III, 26/11/2014, n. 15443).
Sullo sfondo della contestazione formulata dal Tribunale dei Ministri di Catania vi è una complessa questione di diritto internazionale dalla soluzione della quale dipende la ipotizzata violazione dell’obbligo di immediata conduzione dei migranti presso l’hotspot di prima accoglienza.
Va rammentato che in base ad una serie di accordi internazionali, nonostante il mancato intervento delle autorità maltesi (che in base ai medesimi accordi avrebbero dovuto procedere al soccorso dei migranti), a seguito dell’avvistamento operato dalle autorità italiane e del successivo salvataggio dei migranti da parte di nave battente bandiera nazionale, le Autorità italiane, sin dal 19 agosto 2018, secondo quanto ricostruito in punto di fatto dall’organo inquirente, avrebbero dovuto farsi carico di condurre i migranti presso un port of safety.
L’organo deputato ad assicurare l’individuazione del luogo in cui condurre i migranti è il Dipartimento per l’Immigrazione e le Libertà Civili che, ai sensi degli artt. 1 e 5 del d.p.r. 7 settembre 2001, n. 398, recante l’organizzazione degli uffici centrali di livello dirigenziale generale del Ministero dell’interno, costituisce una delle articolazioni, a livello centrale, del Ministero dell’Interno.
Sempre da quanto ricostruito dal tribunale etneo, fino al giorno 24 agosto 2018, nonostante le richieste inoltrate, il Dipartimento per l’Immigrazione e le Libertà Civili non avrebbe individuato l’hotspot, in quanto il Ministro dell’Interno, sen. Matteo Salvini, avrebbe impedito di dare esecuzione alle richieste di individuazione del centro, provenienti dalle autorità costiere, ove trasferire i migranti.
Verificata la materialità del reato di sequestro di persona e ritenuta la natura ministeriale dello stesso, l’autorità giudiziaria catanese ritiene che, nonostante la chiara finalità politica che ha caratterizzato l’azione del Ministro dell’Interno, essa non può cionondimeno essere sottratta da censure di carattere penale.
Nonostante il dichiarato intento del Ministro di perseguire un obiettivo si sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di aprire un dibattito politico finalizzato a coinvolgere anche gli organi dell’Unione Europea, il ritardo nella individuazione del port of safety non può essere ritenuto scriminato (il Tribunale esclude, in particolare, che possa trovare applicazione l’esimente di cui all’art. 51 c.p.), in modo tale che risulta necessario attivare la procedura prevista dall’art. 8 della l. cost. 1/1989.
In questi giorni è in pieno svolgimento il dibattito politico, all’esito del quale l’Assemblea, che a norma dell’art. 9, comma 3, l. cost. 1/1989 è tenuta a riunirsi entro sessanta giorni dalla data in cui gli atti sono pervenuti al Presidente della Camera competente, si determinerà se concedere o meno l’autorizzazione a procedere richiesta.
Da un punto di vista prettamente politico, ed a stretto rigore, il Senato non dovrebbe autorizzare l’autorità giudiziaria a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno. In forza dell’art. 9, comma 3, l. cost. 1/1989, l’Assemblea alla quale la richiesta di autorizzazione viene trasmessa, infatti, può negare, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, l’autorizzazione a procedere, ove reputi che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo. Se è vero che il Ministro dell’interno ha costruito il suo consenso elettorale proprio attorno ai temi dell’immigrazione e che la sua nomina a capo del dicastero al quale spetta la politica dell’immigrazione ha ricevuto la fiducia del Parlamento, parrebbe difficile ritenere che nella sua azione egli non abbia perseguito un preminente interesse pubblico di cui parla la citata disposizione. Conseguentemente, si tradurrebbe in un gesto di grave sfiducia nei confronti di quell’esponente del Governo consentire all’autorità giudiziaria di sottoporlo a processo.
L’istituto dell’autorizzazione a procedere, infatti, dopo la riforma dell’art. 96 Cost. del 1989, ha mutato funzione e da strumento di messa in stato di accusa del componente del Governo si è trasformato in una sorta di strumento a difesa del governo contro le possibili invasioni di campo da parte della magistratura. Concedere l’autorizzazione, dunque, sembrerebbe rinnegare la fiducia che il Parlamento aveva accordato al governo al momento del suo insediamento.
Come noto, in politica le azioni non sempre seguono la logica cartesiana ed in mancanza di una prassi parlamentare (a differenza delle autorizzazioni ex art. 68 Cost., infatti, non vi sono molti precedenti con riferimento all’autorizzazione per procedere nei confronti dei Ministri), è difficile immaginare l’epilogo della vicenda.
Uno scenario appare tuttavia prospettabile, qualora la decisione del Senato dovesse risolversi in un diniego dell’autorizzazione.
Potrebbe aprirsi in tal caso, infatti, una fase dinanzi alla Corte costituzionale, alla quale il Tribunale dei Ministri potrebbe rivolgersi sollevando conflitto di attribuzione.
L’epilogo dell’eventuale giudizio è, tuttavia, tutt’altro che scontato. Contrariamente al tema dei controlli che la Corte costituzionale può svolgere sulle decisioni del Parlamento adottate ex art. 68 Cost., sul quale nel corso degli anni si è formata una prassi giurisprudenziale, con riferimento all’autorizzazione di cui all’art. 98 non vi sono precedenti significativi.
Sebbene, infatti, la decisione dell’Assemblea che nega l’autorizzazione dipenda da una valutazione espressamente definita, ai sensi dell’art. 9, comma 3, l. cost. 1/1989, come insindacabile, in dottrina non si escludono spazi per un intervento del supremo organo regolatore dei contrasti tra poteri dello Stato.
Difficile immaginare come la Consulta, investita del conflitto, possa determinarsi, anche se sembra ragionevole ipotizzare che, una volta postulata la natura ministeriale del reato, l’eventuale decisione del Senato di non autorizzare il processo dovrebbe essere sottratta a qualunque sindacato.