Il governo ci riconosce l’autotutela, intesa come espressione di naturale, istintiva reazione contro il torto, l’ingiustizia. La vittima è nella condizione di non poter ricevere alcun ausilio dai pubblici poteri e, in via compensativa, di non dover subire alcuna sanzione per la sua reazione. Perciò nell’ordinamento giuridico ci sono le cause scriminanti o di giustificazione: quelle speciali situazioni nelle quali un fatto, che di regola è vietato dalla legge penale, non costituisce reato per l’esistenza di una norma che lo autorizza o lo impone. Un razionale ordinamento giuridico non può consentire o imporre e, ad un tempo, vietare un medesimo fatto. Il bilanciamento dei beni giuridici in potenziale ed inevitabile conflitto si risolve in base al maggior valore economico, politico, sociale storicamente attribuito dal sistema normativo a uno di essi. Una donna può colpire violentemente chi attenta alla sua libertà sessuale; i cittadini possono bloccare una macchina che inquina l’aria e offende la loro salute. Il fatto “scriminato” non è più considerato in contrasto giuridico con gli interessi della società e/o della controparte: la sua antigiuridicità è rimossa dalla causa di giustificazione, che riconosce superiore valore e prevalente tutela a un bene giuridico (libertà sessuale, salute) rispetto a quello che sacrifica.
Ci siamo interessati della scriminante dell’esercizio del diritto, con particolare riguardo al diritto di sciopero, riconosciuto dall’art. 40 della Costituzione, in correlazione agli articoli 36 e 41 Cost. (retribuzione proporzionata, vita libera e dignitosa). Ci siamo soffermati favorevolmente sulla corrente di pensiero che riconosce la scriminante dell’esercizio di un diritto (art. 51 cod. pen.) a giustificazione delle modalità necessarie per il successo economico e politico di uno sciopero (picchetto, occupazione del luogo di lavoro, blocco stradale). Seguendo questo orientamento, una parte della magistratura riconosce il diritto di sciopero come strumento di autotutela, nel bilanciamento dei contrapposti interessi tra prestatori d’opera e datori di lavoro. Solo l’autotutela consente la soluzione economicamente e giuridicamente egualitaria del conflitto tra forze politicamente diseguali. L’astensione collettiva dal lavoro e le irrinunciabili modalità operative rientrano nel fatto scriminato dall’esercizio di un diritto costituzionale. In tal senso, il fatto di autotutela non è considerato in contrasto giuridico con gli interessi sociali e imprenditoriali. Può essere foriero di un’offesa in senso naturalistico (limite di libertà di impresa, diminuzione del profitto), ma non di un’offesa in senso giuridico: l’antigiuridicità del diritto di sciopero è stata rimossa perché è riconosciuto valore superiore e tutela prevalente ai beni della controparte (retribuzione proporzionata, vita libera e dignitosa).
I paradossi della storia e le oscillazioni dei rapporti di forza nella società italiana ci stanno portando ad interessarci in maniera tutt’altro che favorevole di un’altra scriminante, che è prevista dall’art. 52 del codice penale del 1930 ed è stata rinnovata dalla recente legge del 28 marzo 2019: la legittima difesa. Anche a suo fondamento c’è il principio di autotutela, che qui si manifesta quando – in assenza dell’ordinaria tutela apprestata dall’ordinamento – viene riconosciuta, in determinate condizioni ed in certi limiti, una deroga al monopolio statale dell’uso della forza. Lo Stato fornisce «un’arma legittima» al cittadino per la difesa e per l’offesa, ammettendo la propria incapacità di intervenire tempestivamente ed efficacemente per difendere la persona e il patrimonio dei governati.
La scriminate è nata nel codice Rocco con un preciso scopo: utilizzare la legittima difesa come strumento per difendere la società da soggetti pericolosi, soprattutto per delitti contro la proprietà. Il regime fascista “risolve” il «conflitto di classe» tra i ‘proprietari’ e i ‘non abbienti’ che ricorrono al furto, dando la prevalenza all’autotutela dei primi. L’autotutela dalla miseria non è giustificata.
Con il crollo della dittatura, nell’Italia democratica rimane ed è addirittura aggravato l’istituto della legittima difesa quale strumento per difendere la proprietà da chi non ce l’ha. Lo Stato continua a “risolvere” la questione sociale come questione criminale e sotto la spinta dell’emotività incalzata dall’azione mediatica,
- asseconda, con interventi poco ponderati, la crescente e incontrollabile esigenza di maggiore sicurezza contro nemici in gran parte fittizi;
- realizza la maggiorazione, in buona parte indiscriminata, della severità punitiva;
- abbandona un piano di recupero dell’uomo e la finalità della reintegrazione degli emarginati.
Di qui l’introduzione, con la legge del 2006 della cd. “legittima difesa domiciliare” con la previsione di una presunzione assoluta di proporzionalità tra difesa e offesa nell’ipotesi di reazione armata contro chi invada il sacro suolo della proprietà, del domicilio e dei territori annessi. La limitazione della valutazione giudiziaria delle risultanze processuali, il freno al libero convincimento del giudice sono stati ampliati con la legge del 28 marzo 2019, che rafforza una simbolica contrapposizione di tipo bellico tra “persone per bene” armate e persone non abbienti che, per presunzione assoluta, ne diventano legittimo bersaglio.
Con terminologia bellica – ritenuta necessaria rispetto al trasgressore nemico – l’attuale maggioranza mostra di aver perso ogni ambizione di prevenzione, la cui plausibilità logica ancor prima che politica si fonda su un apparato di welfare munito di mezzi economici e di volontà politica diretti a realizzare l’integrazione degli strati emarginati. Il rinnovato sistema penale privilegia la neutralizzazione di massa degli emarginati dal mondo degli abbienti, fino a non disdegnare la loro esclusione dal mondo dei vivi.
E’ oggettivamente documentato che manca una base di dati statistici legittimante la smania della caccia al ladro, della difesa armata dell’abitazione e della bottega, dello stabilimento.
I sostenitori dell’autotutela armata non credono nella tutela statale, ma non mostrano un coerente impegno per il recupero della sua efficienza con investimenti diretti al rafforzamento numerico e logistico delle forze dell’ordine. La conferma di questa austerità contabile, correlata alla ampollosa e martellante istigazione all’autotutela privata, porta ad un’allarmante conclusione sulle reali finalità della riforma, inquadrata nella politica della maggioranza. Da questa emerge infatti la costruzione di una micidiale macchina produttiva di consenso, le cui componenti sono:
- la premeditata chiamata alle armi di commercianti, industriali, cittadini qualunque, fatta in campagna elettorale e protratta nel corso della legislatura;
- la cinica strumentalizzazione dell’ansia degli eterni fascistelli di apparire eroi armati contro la criminalità e di essere oggetto dell’ammirazione dei consociati e dell’elogio del popolare Ministro della polizia, pronto a visite in carcere e a promesse di clemenza;
- la chiusura dei confini marini e l’ampliamento della battigia su cui far pericolosamente stazionare gli indesiderati e pericolosi
Dopo la primavera giudiziaria, del riconoscimento della legittimità dello strumento di autotutela delle classi subalterne, nella prospettiva dell’uguaglianza formale e sostanziale, dovrebbe oggi seguire una giurisprudenza che – in continuativa fedeltà alla Costituzione – affermi l’illegittimità di uno strumento di autotutela proiettato ad un incrudelimento delle disuguaglianze e ad un restringimento dell’autonomia del potere giudiziario.
La prognosi di una legittima difesa giudiziaria della legalità costituzionale è ragionevolmente positiva, in base al ruolo democratico che la parte progressista della magistratura ha saputo finora svolgere.