di Antonio Bevere
- Premessa
L’errore giudiziario può essere visto – al pari di ogni infortunio sul lavoro – come inevitabile fatalità, come calamità naturale. I processi penali sono necessari quali eventi di purificazione e di ripristino dell’ordine violato: seguendo l’immagine che ne dà Cordero (il processo è come il fuoco), è naturale che chi ci passa ne esca scottato.[1]
Non è certo vilipendio parlare di errore che il potere giudiziario può commettere nell’esercizio delle sue fondamentali funzioni.
Nel fenomeno dei processi con colpevoli assolti e con condannati innocenti, su fatti realmente accaduti o gemmati dalla fantasia degli inquirenti, le decisioni sono pronunciate da giudici maldestri o ingannati dalle apparenze o condizionati dalle suggestioni esterne all’aula di giustizia o guidati da impulsi di vendetta o solidarietà sociale.
La sentenza definitiva dello Stato non acquisisce perciò la vincolante forza della res iudicata, cioè la funzione di strumento affidabile e intangibile di collegamento tra certezza del giudice, verità ufficiale dello Stato, informazione e convinzione della collettività.
Senza poter costruire un generale modello concettuale o tipizzare la incommensurabile varietà degli errori commessi per colpa o per dolo da chi giudica, si può solo accennare al metodo comunemente standardizzato.
L’errore può nascere non solo da un facere (un ingiusto, un mirato, un preordinato accertamento di responsabilità o di innocenza), ma anche da un non facere o un facere minor: i magistrati possono conoscere dove cercare il colpevole e come identificarlo, ma preferiscono sostare in un accertamento superficiale e soprassedere nella formulazione dell’accusa per attenuarla secondo i condizionamenti di altri poteri dello Stato o dell’egemonico sistema economico: il trascorrere del tempo può generare un’altra verità, non solo grazie allo smarrimento dei documenti, alle amnesie dei testi, ma anche all’oblio sociale. La verità contenuta nella sentenza non è figlia della storia, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
L’errore può nascere anche da una presunta dimensione sociale della funzione giudiziaria: il terzo potere tiene presente un già consolidato convincimento sulla responsabilità giuridica, secondo una verità radicata nel sapere collettivo. La sua funzione si esaurisce nel rendere entrambi ufficiali, riconosciuti dal potere dello Stato. E’ la giustizia come il popolo l’attende, sia o meno fondata su verità conseguite secondo i canoni dell’ordinamento giuridico.
- Il processo Tortora
Al giudice che rompa questa ingannevole armonia tra popolo e giustizia può capitare di esser messo in cattiva luce da entrambi e dai mezzi di comunicazione ausiliari di questa verità universale.
Tra questi vi è il presidente-relatore della corte di appello di Napoli che ha scritto, insieme ai due colleghi della sua sezione, l’inappuntabile sentenza di assoluzione nel famoso processo Tortora.
La decisione rimarrà sempre attualissima, perché è stata pronunciata nel campo minato e pericolosissimo del conflitto tra devoti e scettici verso il sapere dei pentiti.
Un’opera letteraria dovrebbe adeguatamente illustrare il distruttivo processo contro il famoso presentatore, l’emozione scolpita nella memoria collettiva della sua immagine in manette, immortalata il 17 giugno 1983 dalle telecamere e commentata dai telecronisti (alcuni dei quali avevano in comune il “datore di lavoro”, la RAI) e da tutta la stampa italiana. Un’opera in prosa e versi dovrebbe essere liberamente tratta dalla sentenza 17 settembre 1985 di condanna per i delitti di partecipazione alla Nuova Camorra Organizzata e di attività di spaccio di cocaina. Il suo rilievo storico-letterario rimarrebbe inalterato anche se fu ribaltata in appello dalla netta e illuminata sentenza di assoluzione, con formula piena, emessa il 15 settembre 1986 dalla Corte di appello; sentenza che fu confermata dalla sentenza 13 giugno 1987, della Corte di Cassazione, con rigetto del ricorso della Procura Generale di Napoli.
Eppure per un uomo aduso a scrivere opere di fantasia c’è materia altamente stimolante laddove si immerga nella sorgente di cultura e sub cultura da cui sono scaturiti la trama, i personaggi, i fatti vissuti dai magistrati della procura di Napoli, che formularono le accuse confermate dai giudici del tribunale. La storia di questo errore giudiziario pullula di equivoci, di scambi di persone, di farseschi infortuni che normalmente il cittadino incontra nella commedia portata sugli schermi e sui palcoscenici. Dopo la conferma in Cassazione della sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di appello, si intrecciò una pièce supplementare con un insolito e originale protagonista: il pubblico ministero Felice Di Persia, che dopo aver formulato smentite (ma dolorose) accuse contro Tortora, diresse un’impropria foga inquisitoria – dal banco dell’organo di controllo dei magistrati ( C.S.M.), sul quale era stato posto dai suoi estimatori togati – contro i giudici della corte territoriale, definendoli incauti, disinvolti, ipnotizzati, succubi di pressioni esterne (costringendoli a concludere la motivazione della sentenza con una paradossale declaratoria di autodifesa dai sospetti sulla loro indipendenza).
Incontriamo comunque alta letteratura nella storica sentenza scritta da Michele Morello, estensore della motivazione, pubblicata sul numero di Critica del Diritto n. 40-41 del 1986.
Cominciamo dalla lezione sulla valutazione oggettiva della prova, doverosa per il giudice che voglia mantenere la sua posizione di terzietà: “interpretare non significa aggiungere qualcosa all’oggetto dell’analisi, ma leggere e chiarire il significato con le proprie doti di intelletto e di cultura. Superare la soglia dell’oggettività della valutazione, entrando nel campo della soggettività, è tentazione che può colpire anche il giudice …per due principali motivi: a) può accadere che egli si lasci influenzare, come ogni comune mortale, da una tesi particolare ed è perciò portato a forzare i termini della valutazione per raggiungere la giustizia sostanziale, che però è quella che egli ritiene sia la verità; b) perché il giudice, oggi specialmente, è in taluni casi sempre meno giudice e sempre più parte, in quanto si sovraccarica dei più gravi problemi sociali, la cui soluzione spetta ad altri poteri dello Stato ed egli, nel vuoto di intervento di tali poteri, fa supplenza, cioè interviene con gli strumenti impropri ed inadeguati di cui dispone”.
Dicevamo che nella sentenza c’è letteratura, nel significato di umanità indicato da Niccolò Tommaseo, nel Dizionario de’ sinonimi della lingua italiana [2]: “ L’umanità de’ latini s’intendeva in buon senso ed era quella letteratura che rendeva l’uomo quasi più umano, facendone più degni i costumi e i pensieri, lo rendeva più degno del titolo d’uomo”.
Parafrasando Tommaseo, possiamo dire che la lettura di questa sentenza dà conoscenza e partecipazione al recupero del buon senso, dell’umanità della funzione giudiziaria, facendone più degni i costumi e i pensieri, e rendendo i giudici e il principale imputato più degni del titolo d’uomo. L’autore della motivazione rappresenta lo scrittore nella visione che ci offre Leonardo Sciascia: è uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose.[3] Michele Morello dal complesso intricato, incentrato sul folklore giudiziario della tarantella dei pentiti, ha decifrato la realtà, portando la verità alla superficie, mostrando al contempo le sue ombre. Osserva ancora Sciascia: “Lo scrittore rappresenta la verità, la vera letteratura distinguendosi dalla falsa…. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola , anche rendendola più oscura…. C’è però una differenza tra questa oscurità e quella dell’ignoranza: non si tratta più dell’oscurità dell’inespresso, dell’informe, ma al contrario dell’espresso e del formulato”[4].
La Corte di appello ha delineato con chiarezza la cattiva letteratura giudiziaria, fondata sulla non controllata verità dei pentiti, ha formulato, anche con ironia, precise accuse contro la giustizia all’ingrosso che ne può derivare, ha cancellato ogni alibi e ogni giustificazione per chi continua a fingere ignoranza e coprire la fucina della falsa letteratura che è concepita nelle aule di giustizia e vive nei mass media. “Le prove , come si dice nel gergo forense, non si contano, ma si pesano. Paradossale è la tesi accusatoria: se le dichiarazioni convergono valgono di più perché danno più sicurezza; se non convergono invece pure, perché è dimostrato che non vi fu previo accordo tra i dichiaranti”.
Non riporteremo la completa ricostruzione dei fatti contestati al noto personaggio televisivo, ricostruzione che è stata svolta dalla corte territoriale grazie alla realistica e responsabile rilettura e rivalutazione del sapere dei pentiti. Questo sapere è stato razionalmente cadenzato e scandito nei tempi, nelle modalità, nelle finalità, nei ripensamenti che hanno caratterizzato la sua comunicazione ai magistrati, ai giudici, agli organi di informazione.
In questa sede ci limiteremo a riportare i brani in cui la funzione giudiziaria si presenta in un’oggettiva e inevitabile satira di sé stessa, in cui la verità disegnata dall’accusa diviene meta raggiungibile solo a prezzi iperbolici e proibitivi, in termini di identità professionale, per chi giudica, e in termini di identità umana, per chi è giudicato.
In relazione all’imputazione di partecipazione alla Nuova Camorra Organizzata, contestata a più imputati, la corte di appello ha osservato che tutti i chiamanti in correità che hanno partecipato alla costruzione delle accuse o al loro assestamento si sono presentati come portatori di un interesse particolare .”Ciascuno infatti è stato stimolato ad operare le chiamate di correo o perché doveva sottrarsi a determinati pericoli che incombevano sulla sua vita nell’inferno delle carceri …oppure perché era fiducioso in trattamenti eccezionali sia nell’ambito del processo, sia nel corso della detenzione ….oppure perché intendeva consumare le sue vendette per motivi suoi particolari, come si vedrà per Pandico contro Tortora…oppure per altri motivi particolari, comunque estranei alla pura volontà di contribuire alla ricerca della verità”.
Questa spinta alla collaborazione interessata è stata anche esplicitata dagli stessi dichiaranti ed è stata sollecitata con prospettive remunerative dagli inquirenti . “Ad esempio a Starace il G.I. faceva presente, come risulta dal verbale, che, fornendo un grande contributo, la sua collaborazione sarebbe stata tenuto in gran conto e così ad altri ancora…. Le aspettative…erano tali che qualcuno più esigente, che evidentemente pretendeva addirittura la luna nel pozzo, tenne comportamenti ricattatori, come ad esempio Imperatrice che disse di essere disposto a collaborare, ma non volle parlare con nessuno che non fosse della Procura di Napoli, ottenendolo, nonostante il processo fosse ormai in fase di istruzione formale … Inoltre, l’aver qualcuno constatato che coloro che collaboravano con gli inquirenti godevano nell’immediato di grossi privilegi, qual’erano la sottrazione alle segregazioni carcerarie, sostituite dagli alloggiamenti nelle caserme dei C.C. o in questura, la fine del carcere differenziato o del famigerato art. 90 della legge penitenziaria, avrà certamente invogliato altri a rincorrere questi vantaggi e, poiché il contributo doveva essere eccezionale, li avrà certamente spinti a fornire notizie al di sopra delle loro possibilità conoscitive”. La naturale strumentalità di questa collaborazione – ben evidenziata dagli atti processuali – induce la corte di merito ad una naturale accentuazione della cura nell’esame della verità sgorgante da queste fonti, posto che la comodità degli alloggi dei soggetti interessati si riverberava non solo positivamente sul loro impegno ad esternare il proprio sapere, ma anche negativamente sulla prevenzione del pericolo dell’anomala cooperazione nella rievocazione e nella esposizione delle dichiarazioni accusatorie a circolo. “E che tali strutture fossero più che comode, già in grado di concretizzare un interesse alla collaborazione, essendo consentito ai predetti eccezionali ospiti (che pure erano detenuti per gravi reati) davvero quasi tutto, sì da attivare prima la loro smania di fornire un contributo eccezionale alle indagini e dopo le proteste per lo sfratto, si rileva dalla documentazione allegata, dalla quale risulta ad esempio Melluso fotografato con la fidanzata in tenero atteggiamento nella sua stanza della caserma Pastrengo, sia dalla telefonata estorsiva fatta da Barra con il telefono dei Carabinieri, sia dalle dichiarazioni degli stessi pentiti”. Risulta che le celle di questa caserma – destinata insieme alla questura di Napoli ad ospitare i collaboratori – avevano le porte aperte dalla mattina alla sera .[5]
Siamo a Napoli ed ecco la giustizia sprofondare nel folklore della verità contrattata. La corte descrive la catena di montaggio con cui si era costruita nella fase istruttoria questa verità: i collaboratori si limitavano – compromettendo la spontaneità della dichiarazione – ad assentire ai nomi degli indiziati che venivano rivelati dagli inquirenti e risultanti dalle biografie redatte dai carabinieri, con relative fotografia. Pone sotto gli occhi del lettore il deprimente affresco del costume giudiziario consolidatosi in questo processo:
“Perciò man mano che si andava avanti nel processo rinfoltiva la schiera dei collaboratori della giustizia … nella speranza di abbandonare la struttura carceraria e di ottenere futuri benefici, anche al di fuori dei reati confessati con la chiamata di correo, come si vedrà a proposito di Villa e Melluso. Significativi al riguardo sono l’espressione di Villa, secondo cui da tutti ormai ad un certo punto si sapeva che a Napoli ‘si facevano le tarantelle’, ed il tentativo dell’ultima arrivata, Francesca P. che , ritenendo che le “tarantelle” fossero ancora in atto, si presentò alla Corte di appello, detenuta già da sei anni”, pretendendo di far credere alla Corte che – nel mese in cui era stata nel carcere femminile di Campobasso, contiguo a quello maschile – aveva appreso grazie alle grida, percepite attraverso i finestroni, del detenuto Mangiapia, fatti di camorra oggetto delle imputazioni.
Il ritmo della tamburriata nera dei pentiti riprese slancio e vigore nel novembre del 1983:
“Il 4 novembre crollava improvvisamente la prova – regina dell’appartenenza di Tortora alla N.C.O”, poiché si scopriva, con la deposizione di Catona Assunta, che l’agenda sequestrata a lei (e non a Puca, ’o Giappone) il 15 marzo precedente (Tortora fu arrestato il successivo 17 giugno) non conteneva il nome e due numeri di telefono dell’imputato, ma del commerciante di Caserta Enzo Tortona, suo vecchio amico. “Si scatenava una bagarre, tra accusatori e difensori di Tortora, aggiungendosi a quelli che già ne avevano parlato (Pandico, Barra, Sanfilippo, Imperatrice, D’Amico e D’Agostino), nuovi pentiti e cioè Catapano, Cobianchi, Di Monaco, Verderame, Incarnato, Villa, Sganzerla, Ricci, Melluso, Scotti, Tassini, Esposito, Maltese, Federico. Per la verità solo due si schieravano a favore di Tortora…”.
In questo coro di accuse, la Corte di appello dedica particolare attenzione alla collaborazione, già in corso, di Pandico, inquadrandola nel contesto temporale delle investigazioni a carico del presentatore, evidenziando il sospetto ritardo con cui è indicato, in una lunga elencazione di camorristi ad honorem, il nome del più famoso dei suoi accusati .[6]
La corte di appello esamina a lungo le incongruenze, le contraddizioni, le oggettive smentite, gli spostamenti nel tempo e nello spazio delle accuse: “questi continui adattamenti delle sue dichiarazioni alle nuove emergenze scoperte non possono non essere il segno evidente della falsità delle sue accuse, intuite dallo stesso Pandico, che tornava subito alla carica, introducendo nuovi fatti, inspiegabilmente taciuti prima …Pandico viene a conoscenza di una qualsiasi notizia e la elabora a suo uso e consumo…Dovendo dare un significato all’inserimento del nome di Enzo “Tortora” nell’agenda di “Puca”, costruisce subito il racconto, salvo ad essere regolarmente smentito quando poi si accerterà che nell’agenda predetta non era segnato il nome di Tortora, ma quello di Tortona”. Come già detto, la corte di merito dà atto del crollo di questa prova regina , quando ,il 4.11.1983, la Catona precisa che l’agenda è propria e non del capo della camorra e che le annotazioni di nome e numeri telefonici si riferiscono ad un ben vivo e identificabile commerciante di Caserta. [7]
La biografia della fonte di così scapigliate accuse era già conoscibile e idonea a mettere in allarme p.m. e tribunale: con sentenza del 6 giugno 1973, confermata in appello il 21.5.1976 e divenuta irrevocabile, il Pandico era stato condannato per duplice omicidio, duplice tentato omicidio, calunnia continuata e altro. Arrestato il giorno successivo ai fatti di sangue, commessi il 18 giugno 1970, confessò di aver agito per desiderio di giustizia vendicativa (nel corso dell’istruttoria, mutò versione e indirizzò su una delle persone che aveva tentato di uccidere l’accusa di averlo incaricato di uccidere una delle vittime dell’omicidio). La Corte di assise di appello – preso atto che cinque erano state le versioni date dal Pandico nell’intero arco processuale, ciascuna caratterizzata da graduali e progressivi spostamenti, tanto che l’ultima era costruita sul capovolgimento completo della prima – concludeva con il riconoscimento di anomalie di carattere psicopatico abnorme ( ucidità arrogante, ipertrofia dell’Io, bisogno di una grandiosa immagine di sé). Accertamenti psichiatrici furono pure svolti in altri processi a suo carico (per tentato omicidio del padre, per calunnia e autocalunnia, per corruzione e sequestro di persona). In ordine a questi due ultimi reati, era stata pronunciata sentenza di condanna dal tribunale di Saluzzo, in data 19.3.1982, nella quale era stato accertato che
- Pandico aveva consegnato ad una guardia carceraria l’orologio e 50.000 lire con l’incarico di venderlo per acquistare hashish;
- con un trucco gli aveva fatto introdurre le mani nello spioncino della porta della cella e gliele aveva legate, tenendolo sequestrato per l’intera notte del 20 agosto 1980;
- aveva ottenuto dalla guardia in sequestro la confessione di essere stato complice nell’omicidio del fratello di Pandico, ucciso in carcere ;
- successivamente aveva ammesso che il fratello era stato ucciso in una piazza di Nola;
- successivamente aveva dichiarato di aver concordato con la guardia una messa in scena, per richiamare l’attenzione sulla situazione carceraria.
La conclusione della corte di appello di Napoli – alla luce di questa documentazione ,presente da anni negli archivi dell’amministrazione giudiziaria e carceraria – è semplice ed inoppugnabile: “Ora, sorvolando su tutta l’altra documentazione dalla quale si ricavano elementi di conferma della personalità psicopatica e mitomane di Pandico, per il quale qualsiasi fatto a lui non gradito, a torto o a ragione ed anche di minima entità, può scatenare reazioni assolutamente sproporzionate anche a considerevole distanza di tempo… sembra davvero eccessivo condividere il giudizio contenuto nella sentenza appellata, secondo cui ha dimostrato una dedizione senza pari alla causa della giustizia”.
La corte esamina quindi gli astrusi motivi e i molteplici bersagli che sono a monte della impareggiabile dedizione alla verità del vendicatore Pandico, che si è introdotto nel processo accusando se stesso di gravi reati, pur di saldare alcuni conti in sospeso, confermando ancora una volta la fondatezza delle perizie che lo avevano classificato come individuo di carattere psicopatico abnorme da inquadrare in quella categoria di persone, che “a causa della loro anormalità soffrono e fanno soffrire la società”.
La corte sente quindi l’ineludibile dovere di cercare seri e precisi riscontri ”per accuse formulate in maniera anomala e contenenti palesi menzogne….Credere sulla parola a soggetti processuali che si presentano in tal modo è un atto di fede che non può essere richiesto ad un giudice (nemmeno se il giudice debba per avventura combattere la camorra), così come cestinare del tutto le loro dichiarazioni è opera avventata che nemmeno può essergli richiesta…”.
La spinta vendicativa contro Tortora viene ricostruita, partendo dai 16 centrini, acquistati da Domenico Barbaro -detenuto a Porto Azzurro con Pandico – al prezzo di 5.000 lire ciascuno e inviati, il 16 dicembre 1977 alla R.A.I., per la loro vendita all’asta, nel corso della trasmissione “Portobello”, condotta da Tortora. La vendita all’asta dei centrini non ebbe successo, la Rai non curò la loro restituzione, il Barbaro instaurò un vertenza direttamente con Tortora, Pandico ne curò la gestione, attraverso telegrammi, lettere con richieste di risarcimento di L. 850.000, estratti conto, minaccia di querela per appropriazione indebita, minaccia di dare alla stampa “questa non buona azione”. Il destinatario dei messaggi non rispose e la vertenza fu chiusa con l’intervento dell’ufficio legale della RAI , che spedì la somma richiesta il 22 dicembre 1979.
Il Pandico secondo la corte, non dimenticò l’affronto di Tortora, che si era permesso di negare tutto (che sfacciataggine!), non si era degnato di rispondere (con un’incuria davvero vergognosa), approfittando della condizione di un detenuto “ancora legato ai principi dell’onore”.
Dopo Pandico, entra in scena, il 19 aprile 1983, Pasquale Barra: Tortora fu conosciuto da Cutolo a Milano, nel 1978, in casa di una pedina del traffico di stupefacenti gestito dalla banda Turatello. Tortora, personaggio noto e pulito, già lavorava con Turatello e offrì la sua opera di spacciatore al Cutolo. Questi pretese, come condizione per lavorare in nome e per conto della camorra, la fidelizzazione, che avvenne nella medesima abitazione dello storico incontro.
Dopo un minuzioso esame di fonti, tempi, contenuti di questa narrazione, la corte conclude che le accuse di Barra sono inficiate definitivamente dal contrasto con quelle di Pandico: tale contrasto, secondo la corte, “è rilevantissimo per la semplice e importante considerazione che entrambi i predetti chiamanti in correità de auditu indicano la stessa fonte della loro informazione che è anche fonte autorevole, nientemeno che Raffaele Cutolo”. Posto che è razionalmente da escludere che l’autorevole capo camorra abbia narrato una verità al Barra e una verità al Pandico, la corte conclude che questa diversità dimostra la inesistenza della fidelizzazione. Comunque l’accusa di Barra “è del tutto destituita di fondamento (a prescindere dall’assoluta mancanza di riscontri, dalla mancanza di spontaneità e dalla sua sottrazione al controinterrogatorio sia nel dibattimento di primo grado che in quello di appello)”.
Tutte queste accuse sono state minuziosamente esaminate, sminuzzate, sgretolate nella loro sospetta tardività, plateale falsità, fumosa genericità e sono state espulse dal quadro della verità storica e giudiziaria dell’imputazione relativa alla partecipazione di Enzo Tortora alla Nuova Camorra Organizzata e a episodi di spaccio di sostanza stupefacente “Per concludere…. si tratta o di accuse totalmente false, come si è dimostrato per quelle di Pandico, Barra e D’Agostino, che sono i primi ad averlo accusato ed i soli ad averlo fatto con accuse circostanziate (e la dimostrata falsità di queste accuse non può non essere illuminante anche dell’inconsistenza delle successive accuse, la cui plateale falsità non si è potuta dimostrare perché mancavano di descrizione di particolari ); oppure di accuse generiche e per conoscenza indiretta prive di riscontri; oppure del tutto inverosimili”.
In questo capitolo del romanzo poliziesco, incentrato su Tortora e il suo principale accusatore, è da riconoscere alla sentenza della corte di merito di aver decifrato, con una nuova e razionale indagine, la intricata realtà fatta da dichiarazioni tattiche, estemporanee, mutevoli, configgenti e di aver portato alla superficie, semplificandola e anche rendendola più fosca, una verità che era chiaramente raggiungibile e depurabile già nel corso dell’istruttoria e del giudizio di primo grado.
La corte di appello ha dovuto esaminare anche le accuse – del tutto indipendenti dal reato di associazione camorristica – rivolte da Melluso a Tortora, relative allo spaccio di cocaina, compiuto da entrambi, per conto di Gianni Turatello ed altri.
Andrea Villa, detenuto a Paliano, dopo circa sette mesi dall’arresto avvenuto il 17 giugno 1983, chiese di parlare al G.I. di Napoli, affermando di voler collaborare perché la N.C.O. voleva ucciderlo per farlo tacere su un sequestro di persona, per il quale era ingiustamente accusato. In realtà nulla disse sull’associazione camorristica, limitandosi a narrare di un suo incontro, in qualità di guardaspalle di Turatello, con il presentatore in un ristorante di Milano, avvenuto nel periodo 1972-1976. Aggiungeva poi di aver incontrato nel 1980-1981, nel carcere di Ascoli, il Melluso, che possedeva un album di foto in cui era ritratto con artisti e una di esse lo ritraeva in compagnia di Tortora e di due ragazze.
La corte ritiene che Villa si fosse introdotto nel processo per introdurre a sua volta il Melluso, che, narrò dell’ attività di vendita di cocaina, svolta con Tortora, che conosceva tanto da essere ritratto nella suddetta foto. A questa conclusione giunge attraverso la seguente analisi logica: se fine della collaborazione del Villa fosse stata quella di salvare la vita dalle minacce della NCO, non si sarebbe limitato a raccontare particolari estranei a Tortora-camorrista, né avrebbe avuto motivo di menzionare Melluso e la foto con Tortora, in quel momento assolutamente irrilevante nel processo a carico di quest’ultimo. Questo documento, mai entrato nelle carte del processo, comincia a muoversi in maniera impalpabile e incontrollabile tra le risultanze processuali: posseduta dal Melluso, fino al 1980; spedita al cognato Canino in Sicilia; avviata alla distruzione su indicazione della guardia carceraria Donnice, tra il 17.6.1983 (perché prima della data dell’arresto di Tortora, questi era sconosciuto nell’ambito carcerario) e il successivo 21 giugno (data del trasferimento del Donnice); distrutta su ordine di Melluso al cognato, nel luglio-agosto dello stesso anno.
Melluso, a partire dal 3.2.1984, precisa la presenza di Tortora nel circuito distributivo della droga; gli consegnò, per due volte, 1 kg di cocaina nel 1976; a fine anno, fu condotto da Turatello nello studio dell’avv. Cacciola, dove Tortora mostrò una valigetta “24 ore” piena di denaro a Roberto Calvi e Francesco Pazienza. L’avvocato consegnò un sacchetto di cocaina a Turatello, che lo consegnò al Melluso, in qualità di corriere della droga nel mondo dello spettacolo romano. Nel 1978, consegnò al presentato televisivo 5-7 kg di cocaina.
La corte di merito, oltre a valutare negativamente la credibilità intrinseca del collaboratore (mosso dalla finalità di abbandonare il carcere differenziato per un “luogo comodo” quale era ritenuta la caserma Pastrengo e di ottenere, quale collaboratore, una riduzione della pena di sedici anni, inflitta per una rapina) mette in evidenza
- la dimostrata falsità delle accuse del Melluso dirette, sempre nel campo del commercio della droga, su altri soggetti, tra cui il cantante Califano;
- la menzogna plateale concernente la riunione nello studio dell’avvocato Cacciola, nel corso del quale – alla presenza del ventenne Melluso – Turatello, Tortora , Calvi e Pazienza avrebbero scambiato cocaina con valigetta di banconote (fornite dal Tortora) consegnando poi a lui droga da portare a un famoso cantante a Roma, “anche perché improvvisamente Melluso stravolge il ruolo fino ad allora attribuito a Tortora, promuovendolo da semplice spacciatore, per conto di Turatello nel mondo dello spettacolo, a socio-tesoriere di Turatello ( o Calvi o Pazienza) e venditore a Califano”;
- l’assenza di conferme estrinseche alla sua narrazione, tale non potendo ritenersi il bilancino di precisione, trovato in casa del Melluso (i sacchetti pesanti anche sette chilogrammi non si pesano con questo piccolo aggeggio), la decantata foto di Melluso, Tortora e signorine.
Per demolire questo controproducente riscontro, la corte territoriale di Napoli ricorre all’ ironia, termine della filosofia e della retorica che etimologicamente ha un significato affine a interrogazione. In questa accezione ironia designa una componente essenziale del metodo socratico, seguito dall’estensore della sentenza: questi, attraverso domande retoriche all’attuale contraddittore (l’Accusa e il giudice conforme), fingendosi ignorante e incerto, mostra la fallacia e l’irrazionalità del sapere di quest’ultimo. Retoricamente il giudice di appello si chiede: “E mai possibile che i detenuti e le guardie del carcere di Ascoli, nel giugno del 1983 ricordassero una tra le decine di fotografie di gente dello spettacolo che Melluso aveva posseduto ad Ascoli nel 1980? E’ mai possibile che, essendo Tortora stato arrestato il 17.6.1983 ed essendo Donnice stato in servizio ad Ascoli solo fino al 21.6.1983, in tre giorni sia pervenuto l’ordine di non si sa da dove e da chi a Donnice di consigliare a Melluso di distruggere la prova che da circa tre anni nessuno vedeva? E che motivo c’era di coinvolgere l’estraneo Donnice in questa missione, con tutti i camorristi in carcere, certamente più convincenti dell’innocuo Donnice? Che senso aveva distruggere quella fotografia normalissima, che non portava assolutamente niente contro nessuno, tanto meno nel giugno-luglio 1983, quando Tortora era imputato solo di essere camorrista? La fotografia infatti è diventata importante otto mesi dopo, e solo perché Melluso accusava Tortora di altri reati, del tutto diversi e slegati dalla contestazione originaria e dopo di ciò Tortora negava di conoscere Melluso. Che cosa potevano sapere tra il 17 e il 21 giugno 1983 i camorristi dell’importanza a futura memoria (oltre che dell’esistenza) di quella fotografia o, peggio, che ne sapevano gli innominati protettori, liberi e potenti di Tortora (il cui intervento pure si cerca di insinuare un po’ tra i sussurri, un po’ tra le righe?). E se anche quella fotografia vi fosse stata, cosa avrebbe provato contro Tortora se non che conosceva Melluso? E solo questo avrebbe tramutato in verità tutte le dimostrate menzogne di Melluso?”
Anche un’altra conferma alle accuse sul Tortora-commerciante di cocaina cade sotto i colpi della razionale analisi e dell’impietosa ironia dei giudici napoletani.
Nel capitolo Tortora ad Antenna 3, leggiamo che il 15 luglio 1983 C. R., accompagnata da G.M., marito-pittore, racconta ai carabinieri di Milano, i seguenti fatti, poi confermati al P.M. di Napoli: il 3 novembre 1979 si era recata con il marito nella sede di Antenna 3, in occasione di una trasmissione televisiva, intendendo regalare un quadro, per beneficenza in favore dell’UNICEF. Mentre percorrevano i corridoi degli studi televisivi “le si ruppe l’elastico delle mutandine, per cui, insieme al marito, si introdusse in un locale. Mentre tentava di aggiustare l’elastico senza essere visti, entrò nel locale prima Enzo Tortora e dopo un po’ tre persone, una delle quali con una valigetta “24 ore”. Tortora tirò fuori un pacchetto di circa cm 25 , una delle tre persone fece qualcosa e portò il dito alla bocca, poi fece un cenno all’altro, che aprì la valigia piena di denaro. Tortora prese il denaro, gli altri il pacchetto ed andarono via, mentre lei e il marito rimasero disgustati dalla scena ed andarono via senza donare più il quadro”.
La corte rileva che già il tribunale aveva accertato una precedente condanna del pittore M. per calunnia e che questi “cerca di sfruttare tutte le occasioni per far sì che i giornalisti parlino di lui, sfruttando la pubblicità per la sua attività di pittore”. Questo fatto non lo priva certamente della capacità di testimoniare, “ma altrettanto certamente, insieme ad altre considerazioni, fa rientrare un tale teste in quelle categorie di soggetti che non possono essere creduti sulla parola (mancanza di attendibilità intrinseca) …”. La corte tra le considerazioni negative sull’affidabilità del pittore, pone le dichiarazioni della moglie, secondo cui M. ,prima di presentare la denuncia si era consultato con alcuni avvocati e con un giornalista , essendo timoroso di ottenere una non desiderata pubblicità. “Invece, come già doveva ammettere lo stesso …risultava provato , attraverso le testimonianze del giornalista B. fin dall’istruttoria e del giornalista O. nel giudizio di appello, che i due coniugi poco dopo l’arresto di Tortora cercarono insistentemente di vendere un po’ a tutti i giornali una loro notizia più o meno simile a quella raccontata ai giudici”.
Al di là dell’assenza di dedizione alla causa della giustizia che accomuna i coniugi, i tre giudici di appello, ricostruiti l’infortunio occorso all’elastico dell’indumento intimo e le modalità di sua riparazione, nuovamente ricorrono all’ ironia, nel suo affine significato di interrogazione e, fingendo ignoranza e incertezza attraverso domande retoriche, mostrano la fallacia del sapere e della certezza dell’interlocutore:
“Non si riesce a comprendere ragionevolmente, infatti, come mai la C. per togliersi le mutandine non sia entrata in una delle “toilettes” che pur abbondano nel luogo che stavano percorrendo quando si verificò l’incidente all’elastico, ma entrò in un locale buio che prendeva la luce dalla porta di ingresso; come abbia potuto cercare di riprendere l’elastico al buio; come mai sia entrato nel locale anche il marito, anziché fare la guardia davanti alla porta, che doveva restare aperta per far penetrare la luce; come mai entrambi si nascosero vedendo entrare in quel locale Tortora; come mai M. non cercò di impedire l’ingresso di persone in quel locale dove la moglie era alle prese con le mutande; come mai Tortora ed i tre “complici” si introdussero in un locale buio e che doveva tenere la porta spalancata per ricevere la luce per contare banconote e controllare droga, mentre potevano rinchiudersi a chiave nello studio di Tortora, che pur esisteva bello e ampio, ma meno adatto alla bisogna, secondo il Tribunale, perché meno appartato (nonostante la serratura) del locale (esposto ai quattro venti) dove si sarebbe svolta l’operazione raccontata dalla coppia M.- C. Come si è già osservato, infine, a proposito di altre accuse, alla Corte non interessa conoscere se Tortora abbia subito o meno operazioni chirurgiche che richiedessero l’uso della droga per lenire i dolori, né se egli abbia mai fatto uso personale di droga, perché in questo processo si discute di spaccio di droga a chilogrammi contro valige colme di banconote.
Mancando qualsiasi riscontro della verità di queste accuse, l’imputato va assolto per non aver commesso il fatto”. Da notare che la Corte di Cassazione ha rilevato che il P.G. di Napoli “non ha proposto alcuna censura nei confronti dell’assoluzione dell’imputato, relativamente all’episodio di spaccio del quale fu accusato dai coniugi M.-C., sicchè deve ritenersi che la sentenza relativamente a tale capo sia passata in giudicato”.
La prima sezione della Corte di Cassazione, nella sentenza emessa il 13 giugno 1987 ha riconosciuto che l’assoluzione di Tortora dal reato di partecipazione alla N.C.O. “presenta i caratteri della correttezza, nel senso della sua aderenza alle risultanze probatorie, valutate ed interpretate secondo le regole logiche ed il metodo che presiedono all’apprezzamento della prova, e della completezza , nel senso della sua estensione a tutti gli elementi influenti per la formazione dei singoli giudizi..”. Sull’assoluzione dal reato di spaccio di stupefacenti, la Suprema Corte ha rilevato che l’analisi delle dichiarazioni di Melluso è stata compiuta con costante riferimento ai dati di fatto certi ed incontrovertibili, essendo state valutate secondo i canoni logici, giungendo ad una motivazione razionale ed esaustiva.
- il processo Tortora bis
A seguito della citazione in giudizio, con richiesta di risarcimento dei danni patiti da Tortora, quantificati in cento miliardi di lire, e a seguito di un esposto indirizzato al ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, il magistrato Felice Di Persia – pubblico ministero nel processo, divenuto nel frattempo componente del CSM – ha compilato, una memoria, indirizzata al Ministro, ma capitata, a sua insaputa, nella redazione del quotidiano “Il Mattino”, che l’ha pubblicata l’8 giugno 1988 (Tortora era morto il precedente 18 maggio). La collettività ha potuto così assistere e partecipare a questo ulteriore grado di giudizio, instaurato democraticamente da uno dei componenti dell’organo di autogoverno della magistratura nei confronti dei tre colleghi da lui stesso governati e qualificati come disinvolti interpreti dei fatti e autori di una sentenza, che “per forza di cose dovrà essere rivisitata in questa sede, almeno in quelle parti che contengono documentali e marchiane alterazioni della verità”, la cui genesi può essere individuata, oltre che nella superficialità dei giudici, nella “sottile campagna di travisamento ed alterazione della verità, tesa a coinvolgere l’opinione pubblica, di talché viene il sospetto che gli invero poco accorti giudici di appello abbiano, in più di un passaggio, motivato la sentenza facendo ricorso più ai resoconti dei giornali …che dando spiegazioni accettabili sul piano del corretto esame della documentazione e del buon uso delle regole che sottendono al governo della prova…Orbene se non si può non provare rispetto e dispiacere dinanzi al dramma di una morte, avvenuta in circostanze così tragiche, non si può continuare a rimanere inerti ed a tacere di fronte al massacro continuo della propria immagine, specie se dovuta alla alterazione più plateale della verità obiettiva.” Anche se parte della polemica del già P.M. è diretta contro i legali degli eredi del presentatore, che, “abbacinati dalla notorietà che il caso avrebbe su di loro riversato, hanno stilato l’atto di citazione “, nell’atto di accusa del già P.M. è fortissima la esplicita e rabbiosa serie di accuse dirette sui giudici che hanno stilato la sentenza di assoluzione, formalmente intangibile, ma sostanzialmente riprovevole anche perché il “perspicace estensore” ha trascurato la logica “cui pure fa spesso riferimento a sproposito”.
Chi scrive deve riconoscere che ” Enzo Tortora è innocente, perché una sentenza ormai passata in giudicato tale lo ha ritenuto, ma sarebbe stato più gratificante per lui se ad assolverlo fossero stati giudici che avessero dimostrato di sapere correttamente interpretare le carte processuali”.
Con questa libera manifestazione del pensiero, il già P.M. e, all’epoca della polemica, garante dell’indipendenza e della fedeltà alle leggi dei componenti del terzo potere,
– è ricomparso sulla scena del processo Tortora, per riprendersi, fuori tempo e fuori luogo, la parte dell’accusatore;
– ha censurato brutalmente la capacità di pensare e di decidere autonomamente dei tre giudici della corte di appello, presentati come disinvolti e malaccorti lettori di giornali, piuttosto che diligenti controllori degli atti processuali;
– ha assunto questo ruolo di censore, al di fuori degli schemi e delle garanzie previste dalla legge e dalla Costituzione per i controlli sulla lealtà deontologica e professionalità tecnica dei magistrati, da parte dell’organo di autogoverno (di cui era componente);
- ha sostanzialmente impugnato e cassato la sentenza della S.C. che si era pronunciata in tutt’altro modo sulla decisione tanto disprezzata;
- ha instaurato un anomalo dialogo a distanza con tutti i contraddittori di cui ha disconosciuto identità istituzionale e culturale.
In attesa di un esponente della creatività letteraria che ne faccia acconcia narrazione ,prendiamo atto della conclusione di questo complesso romanzo poliziesco in cui si è introdotto il dramma pirandelliano .
La sua conclusione si è avuta con l’atto di autodifesa e di censura, formulato dal “perspicace estensore” Michele Morello, anche a nome del presidente Rocco e del consigliere Ricci, nei confronti di questa fantastica evasione dalle regole e pubblicato su “Il Mattino” del 15 giugno successivo.
Nell’atto di difesa e di accusa possiamo rilevare – oltre alla fierezza per il recupero del buon senso, dell’umanità della funzione giudiziaria, per aver reso i giudici e il principale imputato più degni del titolo d’uomo – lo sdegno per l’anomala revisione formulata dal “collega” Di Persia avverso la sentenza del proprio collegio, che, per di più, era stata confermata dalla Corte di Cassazione, unico organo istituzionale competente a vagliarne legittimità e razionalità:
”Queste parole scritte in una sentenza del massimo organo giurisdizionale della gerarchia processuale, impongono il rispetto di tutti i cittadini, specie se magistrati ed in special modo se membri del Consiglio Superiore della Magistratura”. Michele Morello poi invoca l’intervento del C.S.M., non solo a tutela della dignità dei giudici offesi, ma soprattutto dello stesso Consiglio Superiore; sollecita un’immediata valutazione del “celeberrimo giurista Vassalli” sulla fondatezza delle accuse del Di Persia; sollecita una valutazione dell’Associazione Nazionale Magistrati sul comportamento diffamatorio di chi “ha spinto il vertice della A.N.M. a salire addirittura le scale del Quirinale”.
Il clima di sospetti, di illazioni, di diffamazioni era stato vissuto dai giudici con tale ossessione durante la stesura della motivazione, da portare, come già anticipato, a concluderla con questa paradossale rassicurazione sulla propria indipendenza: “pressioni su questa Corte è lusso che possono permettersi solo gli stolti , ma dalla parte di Tortora la Corte non si è imbattuta in siffatte persone”.
Con queste parole cala il sipario nella rappresentazione del processo nelle aule di giustizia e nelle piazze mediatiche, ma resta la dolorosa amarezza non solo per la morte in due tempi di Enzo Tortora, ma anche per l’indifferenza mostrata dalle istituzioni verso i responsabili del tentativo, fatto con strepito e con silenzio, di innalzare il rogo inquisitorio in danno di Michele Morello e dei suoi colleghi, assurti, loro malgrado, al rango di Eroi della Giustizia.
Nessuna azione nei confronti dei magistrati che indagarono e giudicarono in primo grado sul caso Enzo Tortora. Nessun risarcimento agli eredi. Il 18 ottobre 2018, nel messaggio inviato al convegno organizzato in sua memoria presso il Circolo Magistrati della Corte dei Conti, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha rivolto “a nome dello Stato le scuse a Enzo Tortora e alla sua famiglia” perché in quella occasione “lo Stato non seppe rispondere adeguatamente alla richiesta di un suo cittadino di fare giustizia in maniera certa e tempestiva, accertando responsabilità, torti e ragioni”.
[1] Franco Cordero, Precedura penale,Giuffrè, 1991, 503
[2] Napoli, Stamperia e Cartiere del Fibbreno, 1845, p. 387.
[3] Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Arnoldo Mondadori, 1979, 78 ss.
[4] Ivi, p. 87.
[5] La Corte di cassazione riconosce la legittimità della sentenza di assoluzione laddove “ha accertato – come risulta dalle dichiarazioni di diversi pentiti (Catapano, Incarnato, Riccio) – che nella caserma Pastrengo si socializzava e ciò con pregiudizio della genuinità delle accuse”.
[6] “La prima volta che il nome di Enzo Tortora compare agli occhi della polizia fu il 15.3.1983, quando a Lecce furono arrestati Giuseppe Puca (o’ Giappone ), la sua compagna Assunta Catone ed altri e fu sequestrata un’agenda, che tutti attribuirono in un primo momento (durato circa 8 mesi) a Puca, leggendo nella stessa erroneamente il nome di Enzo Tortora (con due numeri di telefono). Si è visto però (§ 87) che circa 8 mesi dopo si scoprì che l’agenda era della Catone, non di Puca, e che il nome non era Enzo Tortora, ma Enzo Tortona, vecchio amico di Caserta della Catone, ed al Tortona appartenevano anche quei due numeri di telefono (§ 12 e 87). La corte ha tentato di conoscere quando gli inquirenti napoletani (CC e PM) vennero a conoscenza del sequestro a “Puca” dell’agenda con il nome di Enzo “Tortora”, e ciò allo scopo di accertare quando il Panico ne sia a sua volta potuto venire a conoscenza…L’iniziativa non sortiva risultati certi in quanto la questura di Lecce rispondeva che la comunicazione ai magistrati napoletani era avvenuta con la nota 5.8.1983 e che erano stati tenuti contatti telefonici solo con la Criminalpol di Napoli (non con i CC) in data 9 o 10 agosto.
Ciò però non sembra esatto, in quanto nel vol. 29 fasc. I fol 123 vi è una nota della predetta squadra mobile di Lecce, datata 5.8.1983 e diretta personalmente anche ai sostituti della procura napoletana che istruivano questo processo in cui è scritto: di seguito a precorsa corrispondenza e con riferimento alla nota 659/22 del 29.3.1983 è emerso che in data 15.3.1983 è stato sequestrato al momento della cattura di Puca Giuseppe…
Il motivo della curiosità della corte era semplice.
Pandico fece la prima volta il nome di Tortora il 28.3.1983, consegnando l’elenco dei camorristi da lui compilato (§20) al suo quinto interrogatorio, quando già da sette giorni, precisamente nel secondo interrogatorio del 21.3.1983 (§15), aveva elencato una lunga serie di camorristi ad honorem (cioè della stessa categoria poi assegnata al Tortora) senza fare il nome del più celebre Tortora….Nei successivi due interrogatori del 22 e 23 marzo (§17) Pandico si soffermava ancora su alcuni dei predetti camorristi ad honorem e non faceva il nome di Tortora. Improvvisamente, il 28.3.1983 il nome di Tortora “Enzo Tortora”, via Piatti 8, Milano, fedele ad honorem “ compariva per la prima volta inserito tra i 240 nomi dell’elenco dei camorristi da lui redatto alla caserma Pastrengo e consegnato al PM il 28.3.1983(§20). Nello stesso giorno ed il 30.3.1983 forniva precisazioni su alcune persone inserite nell’elenco (§21), finchè nel secondo interrogatorio del 30.3.1983 (§22), dopo aver parlato di Barbaro Domenico e Alcamo Giuseppe, affermando che erano associati nel traffico della droga e che Barbaro dalla banda Turatello era passato alla NCO, fidelizzato dai Palillo, aggiungeva che collegato a Barbaro e quindi ad Alcamo era Enzo Tortora, il presentatore della R.A.I. T.V. e che questo particolare era noto a tutta la dirigenza della NCO”.
Precisa che era stato “fidelizzato” dai Palillo nel settembre-ottobre 1980 e che era rimasto debitore verso la N.C.O., in persona di Domenico Barbaro di una partita di droga di 50 milioni di lire, a dire del debitore, smarrita e che un recente affiliato; lo stesso Pandico aveva incaricato, il 28.2.1983, il detenuto Alfredo Guarneri, recente affiliato, di metterlo sulla buona strada o di ucciderlo, in caso di accertato doppio gioco. Dopo circa 4 mesi dichiara che, appena giunto il 7.8.1983 nel carcere di Ascoli, riceve dal capo della N.C.O. Cutolo, in presenza di altre persone, la notizia della “fregatura” che l’organizzazione aveva ricevuto da Tortora, ingaggiato dalla famiglia Palillo nel 1977-1978; il presentatore aveva piazzato alcune partite di droga per conto dell’organizzazione, ma l’ultima, nel 1981, era scomparsa, senza che fosse stata raggiunta la certezza sul suo smarrimento e senza che il sospettato fosse stato punito. “Successivamente Pandico si rendeva conto che non potevano reggere le date del racconto proprio a causa dell’impossibilità da parte sue di avere un colloquio su quegli argomenti delicati con Cutolo al suo arriva ad Ascoli, e spostava la data del racconto a poco prima di Natale del 1981 (§77)…Cosicchè, a distanza di sette mesi dall’accusa a Tortora, aggiungeva che …si era a conoscenza che Casillo teneva i contatti dell’organizzazione anche con Tortora per quanto riguardava lo spaccio della droga”. Dopo la morte di Casillo, avvenuta il 29.1.1983, in una riunione di pochi giorni successiva …”fu stabilito che il successore fosse Puca, al quale furono conferiti vari incarichi, tra cui quello di riprendere i contatti con Enzo Tortora per chiarire in via definitiva lo sgarro commesso. Perciò era stato trovato il nome di Tortora nell’agenda di Puca, concludeva Pandico, mentre i due numeri di telefono o si riferivano ad utenze telefoniche con le quali Puca poteva stabilire un contatto con Tortora o erano in codice”. A questo punto, la Corte di appello, rilevata la duplicità dei soggetti incaricati di indagare e riportare l’infedele divo televisivo sulla retta via, pone polemicamente il seguente interrogativo: se fosse vero che Pandico apprese, a metà febbraio che Puca era stato incaricato dall’organizzazione di chiarire con il presentatore lo sgarro, “come poteva, dopo appena una quindicina di giorni (il 28.2.1983) scavalcare l’assemblea e sostituire nell’indagine il capo Puca con l’ultimo affiliato Guarneri?”
[7] Nella memoria inviata al ministro della giustizia, il già P.M. Di Persia nega all’agenda e alle sue annotazioni il titolo di prova regina, ritenendole oggetto di clamore pubblicitario, montato dai difensori di Tortora: “la loro abilità ed il clamore dei fatti ebbero addirittura ad ipnotizzare i giudici di appello se li indussero a seguire una tesi assurda con affermazioni per loro quantomeno compromettenti (v. tra l’altro vol IV, pag. 481, u.cpv)”. L’estensore della memoria espone i seguenti dati e le seguenti valutazioni:
a) è documentalmente provato che la questura di Lecce inviò nell’agosto 1983 la comunicazione alla procura di Napoli sul sequestro dell’agenda, avvenuto il 15 marzo precedente (la Corte di appello è perplessa su questa data, v. nota precedente); b) l’originale dell’agenda è pervenuto al G.I. nel maggio del 1984 e su di esso risulta il nome “Tortora Enzo” e non “Tortona Enzo”; c) è frutto dell’abilità dei difensori di Tortora la tesi – sostenuta nell’atto di citazione per il risarcimento dei danni – secondo cui Pandico fece il nome del presentatore televisivo, il 28.3.1983 solo perché era stato “imbeccato” dagli inquirenti, che avevano saputo in quei giorni del sequestro avvenuto il 15 marzo e credevano in buona fede che i numeri appartenessero al presentatore; d) risulta invece che Pandico aveva già fatto il nome di Tortora nel febbraio 1983, quando, prima di dissociarsi, aveva dettato a Guarneri Alfredo, con lui detenuto a Pianosa, che sperava in quei giorni di essere messo in libertà, alcuni nomi di persone, da lui ritenute aderenti alla NCO, di cui doveva controllare i comportamenti. Il Guarneri scrisse quei nomi su una sua agenda che , dopo le dichiarazioni del Pandico, fu sequestrata a Pianosa. “E allora sarebbe bastato tener presente questo elemento, del resto evidenziato nella requisitoria e nella ordinanza istruttoria, per rendersi conto che l’agendina sequestrata alla Cantone solo il 15.3.1983 ,ossia diversi giorni dopo che il Pandico aveva dettato il nome di Tortora al Guarneri ,non sarebbe potuta servire, quando anche fosse stata conosciuta tempestivamente dagli inquirenti e dal Pandico, come elemento dal quale partire per imbastire un’accusa tesa a coinvolgere il presentatore nel procedimento a carico di aderenti alla NCO”.
L’argomentazione difensiva nei confronti delle accuse contenute sul punto nella citazione a giudizio, si conclude con un’aspra critica ai giudici di appello, accusati di “accogliere con tanta superficialità e senza alcun vaglio critico messaggi di tal fatta e porli addirittura a fondamento della sentenza di assoluzione, calpestando, con affermazioni proditorie e gratuite, professionalità specchiate e testimoniate da anni di duro e difficile impegno”.
Al di là del riconoscimento o disconoscimento all’agenda telefonica di titoli nobiliari (regina, plebea e simili), rimane il dato inoppugnabile che la sua capacità di depistaggio (per errata identità del possessore e del potenziale destinatario delle telefonate) rispetto alla posizione di Tortora è stata mantenuta operativa nelle carte processuali per un arco di tempo, la cui durata è solo in minima parte giustificata dalla mole gigantesca dell’intero processo alla N.C.O. Infine, non può non condividersi l’epilogo del tanto rumore per nulla, suggerito dallo stesso Morello nell’autodifesa inviata a Il Mattino: premesso che la corte territoriale non fu messa in grado di conoscere con certezza se e quando Pandico fosse venuto a conoscenza dell’agendina (che comunque erroneamente inquinò le prove di accusa per circa otto mesi), va tenuto conto che, secondo la S.C., il documento “non ha avuto alcuna influenza nella formazione dei giudizi probatori che la sentenza pone a fondamento dell’assoluzione dell’imputato.”