di Marcello Gallo
Qualche tempo fa in una memoria difensiva avevo segnalato (e lamentato) quella che chiamavo “vischiosità” dei concetti giuridici e, quindi, dell’argomentare che tali concetti utilizza.
Gli esempi sono quanto mai numerosi: il meccanismo mentale sempre lo stesso; diverse le ragioni. Tutto sommato, però, si arriva sempre a quello che mi ostino a considerare il peccato capitale del giurista: ricavare la regola dal concetto e non il concetto dalla regola.
A rendere ancora più densa tale vischiosità contribuisce, certo non poco, il tradizionalismo degli uomini di legge. Soprattutto, poi, se si riflette che a ben guardare questo tradizionalismo si esercita e si esprime più sulle formule che sull’effettivo svolgimento del pensiero, che sovente è tutt’altro che tradizionalista. Non per niente Lenin e Ghandi erano nati alla vita pubblica come avvocati – e sempre se ne ricordarono.
Questo rimanere ancorati a formule che non corrispondono più ad un assetto normativo reale si coglie in tutta evidenza nell’uso, divenuto pressoché costante, di richiamare in dispositivo il capoverso dell’art. 530 c.p.p. quale fondamento di una sentenza assolutoria. Tutto potrebbe essere liquidato avvertendo che a questo modo ritorna la formula di proscioglimento cosiddetta dubitativa, che nel vigente ordinamento processuale non avrebbe diritto di cittadinanza. Senonchè le cose, come sempre ahime!, sono un po’ più complesse. In questo caso ad una formula e, sia pure inconsciamente, a ciò che dietro a questa formula sta, prima ancora che gli interpreti – in modo particolare quell’interprete qualificato che è il giudice – è rimasto attaccato il legislatore delegato. E qui mi sia concesso quell’atto di arroganza intellettuale che spesso è il recitare il mea culpa. Quale Presidente della Commissione Parlamentare per il controllo sulla conformità del testo proposto dalla Commissione Governativa alla legge delega avrei, avremmo dovuto accorgerci dell’equivoco cui davamo appiglio con la dizione del capoverso dell’art. 530.
Non v’è dubbio che dal codice del 1988 doveva essere radicalmente espunta la regola dell’art. 479, III comma, c.p.p. 1930, secondo cui “Se non risultano sufficienti prove per condannare, il Giudice pronuncia sentenza di assoluzione per insufficienza di prove”.
Infatti, la legge delega, alla direttiva n. 11, aveva profilato le varie formule di assoluzione o proscioglimento “statuendo che si ha mancanza di prova anche quando essa è insufficiente o contraddittoria”.
La legge delega, dunque, spiegava che insufficienza o contraddittorietà sono nient’altro che mancanza di prova.
Per contro nel codice, che doveva rispondere alle direttive della delega, all’art. 530, II comma, le situazioni di insufficienza e contraddittorietà sono state affiancate a quella in cui la prova manca. Si ingenera, a questo punto, la prassi per la quale una norma che si limita ad esplicitare in quali casi si deve pervenire all’assoluzione prevista dal I comma dello stesso articolo viene ritenuta, nei fatti, come una sorta di reviviscenza della formula di insufficienza probatoria. Con la stridente conseguenza che, su tal via, il codice attuale che, ripetiamo, sembra porre sullo stesso piano mancanza, insufficienza e contraddittorietà di prova rischia di essere inteso, sul punto, come un passo indietro rispetto alla normativa precedente, per la quale era tassativamente prescritto che la mancanza di prova dovesse portare all’assoluzione con formula piena. Stante il chiarissimo disposto della delega, il capoverso del 530 va letto come affermazione che vi è mancanza di prova e, quindi, dovere di assoluzione con formula piena anche quando la prova appare insufficiente o contraddittoria. Ne deriva che ogni statuizione facente capo ad una ritenuta insufficienza è priva di fondamento giuridico: l’insufficienza, infatti, è pura e semplice carenza di prova.
Questa, nell’attuale sistema, o si realizza in tutta pienezza o fa difetto.
Ciò posto, il riferimento al capoverso dell’art. 530 c.p.p. è possibile soltanto in motivazione, a chiarimento del perché si ritiene mancante la prova. Ciò che conta, però, è che la prova non è stata raggiunta e di questo deve rendere atto al dispositivo, sulla base del I comma dell’art. 530 c.p.p. .
E queste non sono civetterie di vecchio professore o di parlamentare “pentito”. Basta pensare agli effetti, non soltanto d’ordine sociale ma anche giuridici, che un’assoluzione motivata dal dubbio porta con sé per avvertire come al fantasma di uno spettro fastidioso e molesto vada opposto ogni esorcisma.
In Moralitè 2011 Quaderni di critica https://www.edizioniesi.it/pubblicazioni/libri/diritto_storia_filosofia_e_teoria_del_diritto_-_1/diritto_penale__-_1_-_07/Moralite.html