di Marcello Gallo

Il coro di critiche suscitato dalla legge 13 febbraio 2006, n. 59, che ha aggiunto due commi all’art. 52 c.p., mi ha confermato nell’opinione che avevo espresso in una breve nota apparsa sul n. 2-3 del 1999 di questa Rivista: a noi italiani la legittima difesa proprio non piace. Chi agisce in istato di auto-tutela, osservavo, corre il rischio di apparire come un pistolero del West. Che si sia trovato nella necessità di sostituirsi, nella salvaguardia di diritti propri o altrui, ad uno Stato che, nel caso concreto, non poteva intervenire, è ritenuta circostanza di poco conto, sulla quale si può agevolmente sorvolare. Quello che disturba è che il singolo abbia provveduto alla difesa di sé o di terzi con le proprie mani, quasi usurpando una prerogativa dei poteri giuridicamente organizzati. Altrettanto poco sembra, poi, contare il fatto che presupposto della facoltà di autoprotezione sia l’impossibilità di intervento di chi è, per legge, deputato alla difesa della società. Sembra, in un certo senso, che vi sia il convincimento che, ove lo Stato non possa interporsi, sia opportuno lasciar correre: tutto sommato, meglio un’ingiustizia che un disordine. E si badi: una siffatta diffusa mentalità  non resta confinata a sentimenti più o meno confusi e, spesso, contraddittori. La ritroviamo in non poche decisioni giudiziarie, anche della Suprema Corte. Il rigore con il quale si procede all’accertamento del requisito della proporzione tra offesa e difesa, l’oblio del vecchio, saggio ammonimento che adgreditus non habet staderam, il frequente ricorso alla eventualità del commodus discessus per limitare contra legem (all’art. 52 c.p., non è fatta menzione, a differenza di quanto avviene per lo stato di necessità, della inevitabilità della reazione) il diritto di difesa stanno tutti a dimostrare quanto faccia fatica ad affermarsi l’idea che, a certe condizioni, ci si può – si faccia attenzione: non è che si debba – aggiustare da soli.

In stretto parallelismo a questo sforzo di ridurre l’area della legittima difesa, ponevo l’indulgenza con la quale è trattato quanto dovrebbe costituire ottemperanza all’obbligo di motivazione. Anche qui, una sorta di feticcio. Così come è restia a riconoscere che attività che ordinariamente le sono peculiari possano essere svolte da soggetti non istituzionalmente delegati, l’organizzazione statuale rifugge dal dare chiara, esauriente, convincente spiegazione del perché dei propri atti – specie quando si tratti di quegli atti fondamentali in una struttura giuridicamente decente, che sono i provvedimenti giudiziari.

Il legislatore del 13 febbraio 2006 ha cercato di correggere non tanto la norma, quanto la prassi che su di essa, e intorno ad essa, si era venuta creando.

L’art. 52 c.p. non è toccato. Rimane nella sua intierezza e definisce i tratti essenziali dell’istituto. In particolare, è ribadita la necessità che vi sia pericolo attuale di offesa ingiusta – e vedremo come ciò si rifletta sul contenuto del secondo comma, introdotto dalla novella. Quanto, poi, al requisito della proporzione tra offesa e difesa, non v’è dubbio che esso continui a porsi quale pietra angolare dell’istituto.

Ciò posto, quello che adesso è il secondo comma dell’art. 52 c.p. si configura come norma di interpretazione autentica, volta a precisare quando, in certi casi, occorra riconoscere che la proporzione è rispettata. Innanzitutto, una delimitazione ambientale. Il criterio enunciato dall’attuale secondo comma dell’art. 52 c.p. esige che, nelle ipotesi indicate dall’art. 614, I e II comma, l’azione si svolga in uno dei luoghi ivi indicati. Attore è chi, legittimamente presente in uno di questi luoghi, usi un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo, al fine di difendere la propria o altrui incolumità. Dove è chiaro che, come ho sopra accennato, il pericolo per l’incolumità, propria o di terzi, non può essere generico, ma attuale, cioè concreto: non c’è alcun motivo, infatti, per ritenere che si sia voluto derogare al principio della regola che traccia il quadro generale dell’istituto.

Altrettanto poco fondata è, poi, la preoccupazione che il disposto, secondo il quale esiste proporzione quando si verifichino le condizioni di cui al II comma dell’art. 52 c.p., porti a giustificare reazioni contro chi, pur aggressore, pone in essere una minaccia trascurabile. In primo luogo, di nuovo, risponde a questa preoccupazione l’esigenza di attualità del pericolo, che vuol dire concretezza del pericolo stesso. Ora, deve trattarsi di pericolo che concerna la propria o altrui incolumità: e incolume si dice di chi esce sano e salvo da un grave pericolo, non da qualsiasi possibilità di evento che comunque scalfisca la persona. Inoltre, come è stato giustamente posto in rilievo[1], la ragionevolezza cui è ispirato l’art. 3 Cost. fa sì che non sia ravvisabile proporzione quando, per rifarci ad un esempio impressionisticamente utilizzato, si spari contro un bambino di pochi anni che tenti di rubare qualche frutto. Piuttosto, sempre restando alla fattispecie di cui alla lett. a) del II comma del nuovo art. 52, non è agevole comprendere perché la facoltà di difendersi con un’arma sia concessa solo a chi quest’arma legittimamente detenga. Sono due cose assolutamente distinte: il diritto di difendersi, nei luoghi di propria privata dimora, non ha nulla a che spartire con la legittimità o no della detenzione di un’arma. Se la detenzione non è autorizzata, il soggetto agente ne sarà ritenuto responsabile, senza che ciò incida sull’autotutela. Molto probabilmente, la soluzione cui si è pervenuti rappresenta una concessione propiziatoria a chi temeva una dilatazione eccessiva della scriminante dell’art. 52.

Sono convinto che a questo intento di dimostrarsi, con gli oppositori della riforma, ragionevolmente arrendevoli sia dovuto anche il disposto della lett. b), II comma. Allorché in pericolo sono beni, propri o altrui, la proporzione tra offesa e difesa sussiste quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. Pienamente accettabile quest’ultima condizione. Se l’attacco al patrimonio non sconfina nel pericolo di aggressione personale, per ritenere la scriminante valgono i principi generali di cui al I comma dell’art. 52. Quello che desta sorpresa è il fatto che si sia sentito il bisogno di precisare che la legittima difesa, ex lett. b), ricorre a patto che non vi sia desistenza. Ma che l’offesa sia in atto è caratteristica  essenziale della legittima difesa. Quando l’aggressore desiste, non si parla più di autotutela, bensì di rappresaglia. L’espressa menzione alla lettera b) e il silenzio alla lettera a) può far  pensare che nella fattispecie delineata da quest’ultima si possa agire anche contro chi abbia cessato dalla condotta aggressiva: e sarebbe davvero un’inammissibile e incostituzionale deformazione dei connotati dell’istituto. Dal punto di vista della corretta tecnica legislativa,  o si sarebbe dovuto subordinare l’esercizio della difesa legittima alla non desistenza da parte dell’aggressore anche nell’ipotesi della lettera a), o se ne sarebbe dovuto tacere tanto in questa che nella lettera b).

La soluzione cui, invece, si è pervenuti sembra soltanto un volenteroso tentativo di assicurare i dubbiosi che, allorché non è in gioco la persona propria o altrui, nella auto-tutela del patrimonio non ci si spinge troppo oltre.

Vien quasi voglia, a questo punto, di dire che sul serio la legittima difesa non incontra il favore degli italiani. Né quello, in genere, di chi si propone come portavoce dell’opinione pubblica, né quello del legislatore che, rivisitando l’istituto, nel lodevole intento di impedirne una lettura riduttiva, pare esercitarsi in un faticoso equilibrismo fra buoni propositi e trafelate assicurazioni che, tutto sommato, non si superano certi confini.

[1] Cfr. F. DASSANO, L’auto-difesa resta proporzionata, in Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2006, p. 27.

 

In Moralitè 2011 Quaderni di critica https://www.edizioniesi.it/pubblicazioni/libri/diritto_storia_filosofia_e_teoria_del_diritto_-_1/diritto_penale__-_1_-_07/Moralite.html