di Antonio Bevere

Il 4 marzo 1898, nell’aula del tribunale penale di Chàteau-Thierry, il collegio, presieduto da Paul Magnaud, pronunciò una sentenza che provocò grande emozione nella pubblica opinione e serrate critiche nel mondo dei benpensanti. L’accusa era stata formulata nei confronti della giovane Louise Ménard, sorpresa dal panettiere del paese mentre si allontanava dal negozio con una pagnotta che non aveva pagato. La flagranza del furto, il lieve danno cagionato al commerciante, la piena confessione e la precedente buona condotta della donna non sfociarono nella prevista condanna ad una tenue pena detentiva, ma in una originale assoluzione storica e di immutata attualità.

La donna non aveva rivendicato la superiorità del diritto alla sopravvivenza rispetto al diritto di proprietà e quindi non aveva invocato il principio di autotutela della vita, legittimante il sacrificio del diritto patrimoniale del commerciante. Louise Ménard aveva accettato con rassegnazione il degradante stato di indigenza, era pronta a subire la riprovazione del proprietario e la reazione dei pubblici poteri. Chiese però la libertà di lavorate per pagare il prezzo del pane rubato (ventitré soldi) e per nutrire il gruppo familiare.

Il collegio presieduto da Magnaud rifiutò di farsi braccio punitivo di uno Stato incapace di tutelare la vita e la dignità dei cittadini in condizione di incolpevole indigenza. Premesso che «un atto, ordinariamente riprovevole, perde molto del suo carattere delittuoso quando quegli che lo commise agiva spinto dall’imperioso bisogno di procurarsi un alimento di prima necessità, senza il quale non regge la nostra naturale costituzione fisica», il tribunale assolse l’imputata, in quanto era doveroso il riconoscimento dello stato di necessità «in favore di coloro che agirono sotto l’impulso irresistibile della fame».[1]

La sentenza non poteva passare inosservata per la sua audace difesa dei diritti dei cittadini non abbienti. La maggioranza dei cittadini manifestò solidarietà per la donna e consenso per il giudice.

Le aspre critiche furono formulate dai quotidiani parigini che accusarono il presidente di avere «una visione abbastanza falsa della società stessa e dell’ufficio di magistrato». Il Guardasigilli fu sollecitato a richiamare il giudice – che «osava assolvere una ladra» – al rispetto del prestato giuramento: «la legge sia sempre applicata, essa, superiore all’umanità: la fame non è una scusa. Che avverrebbe mai, o Capitale Dio, se i pezzenti che hanno fame si mettessero a mangiare invece di suicidarsi?». Magnaud replicò con estrema chiarezza: «La fame, dopo trentasei ore di digiuno, mi parve una forza alla quale una donna non poteva resistere. Ella passa dinanzi una bottega di panettiere, il pane è là, in vetrina, ad affascinarla, ed a casa la sventurata ha la mamma ed il figlio che muoiono di fame. Venite ora a parlarmi di libera volontà e di discernimento possibili in caso come questo». [2]

E’ noto che la scriminante dello stato di necessità in questo caso presuppone un conflitto di interessi tra soggetti, che sono collocati, in via contingente o in via stabile, in posizione di disuguaglianza, essendo di diverso livello economico e sociale. A fronte di questo conflitto, lo Stato, con l’introduzione nella legge penale di una generale causa di giustificazione, codifica il primordiale principio necessitas non habet legem.

 Lo Stato intende risolvere il conflitto dando prevalenza all’interesse che ritiene di valore superiore, cioè a un diritto non patrimoniale, ma personale.

La proprietà – sotto il profilo sostanziale – in casi estremi non è più tutelata dalla legge penale che, riconoscendo la scriminante, dà prevalenza all’interesse alla vita e all’incolumità fisica del trasgressore. Per il suo carattere utilitaristico, lo stato di necessità è amorale, e per evitare di sconfinare nella  immoralità deve rispettare rigorosi limiti[3] concernenti la situazione di pericolo, cioè la minaccia di un danno alla persona di chi ha trasgredito.

Questo pericolo non deve essere causato volontariamente da chi invoca lo stato di necessità: dalla legge (e dalla prevalente interpretazione) la scriminate è negata a chi abbia dissipato i propri beni o a chi rifiuti o ignori i beni offertigli dallo Stato e dai consociati.

Una riedizione della giurisprudenza di Magnaud, si è presentata nel XXI secolo addirittura grazie alla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18248 del 7 gennaio 2016.

I giudici della Suprema Corte non hanno voluto ignorare l’evidente sproporzione tra il lieve danno cagionato al proprietario e la pesante privazione della libertà (sei mesi di reclusione oltre a 160 euro di multa) inflitta dai giudici di merito all’indigente (e recidivo) imputato. Il furto era stato commesso in un supermercato e l’uomo – recatosi alla cassa per pagare un pacchetto di grissini, nascondendo sotto la giacca due confezioni di formaggio e una di wurstel, per un valore di 4 euro – era stato sorpreso in flagranza di reato, grazie alla segnalazione di un altro cliente. L’uomo veniva così condannato in primo grado dal Tribunale di Genova ex art. 624 c.p., ad una pena ridotta, essendo stata riconosciuta dal giudice la prevalenza sulla contestata recidiva della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4 c.p., attesa la tenuità del danno prodotto. La sentenza veniva poi confermata in Corte d’Appello. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Genova aveva proposto ricorso, con richiesta di applicazione dell’art. 131 bis c.p. o, in subordine, di derubricazione del fatto da delitto consumato a tentato, non essendo il soggetto riuscito a superare le casse del supermercato.

La Corte di Cassazione ha invece addirittura ritenuto che il fatto non costituisce reato in quanto giustificato dallo stato di necessità: l’uomo ha preso, senza pagare, formaggio e insaccato «per far fronte ad una immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi».

Estremamente allarmato ed allarmante è il commento diffuso dal quotidiano napoletano Il Mattino, il 3 maggio 2016, ad opera di un docente di diritto ecclesiastico, già Presidente della Corte Costituzionale, già Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, già Presidente del Consiglio della Banca d’Italia.

«Pur se dalla decisione sembra trasparire lo spirito di umanità che deve ispirare anche il diritto, non manca qualche rischio se la soluzione adottata con ragionevole comprensione di una situazione di bisogno diventa principio che apre a letture lassiste.

Nel contesto di solidarietà che caratterizza il nostro paese, anche per il generoso impegno di una miriade di organizzazioni religiose e di volontariato, in presenza di non poche mense della carità, davvero non ci sono effettive possibilità di alimentarsi senza ricorrere al furto, o questo è davvero invetriabile, come occorre per caratterizzare lo stato di necessità? E quando l’esigenza di alimentarsi diviene oggettivamente necessità immediata e imprescindibile, come la ha definita la Cassazione?».

Di qui il pericolo di una sentenza, che, ispirata ad equità, apra alla giustificazione di un “taccheggio minuto e diffuso”, in alternativa ai servizi di assistenza che le istituzioni comunemente offrono.

Questo pericolo è ampiamente avvertito dai giudici della Suprema Corte che negli ultimi decenni, mostrano di essere convinti che lo Stato e gli enti territoriali – coerentemente con i principi della Costituzione – hanno costruito una rete di provvidenza e assistenza per i non abbienti.  Questo complesso muro protettivo dei bisognosi – costruito con solidarietà cristiana e con pubblici investimenti sociali – ha reso storicamente anacronistico e tecnicamente inapplicabile l’esimente dello stato di bisogno invocato da chi abbia violato una norma penale per carenze alimentari e sanitarie.

Si tratta di un’interpretazione restrittiva dello stato di necessità che rischia di togliere rilevanza esimente nel giudizio su qualsiasi reato, con particolare riguardo al furto per fame. Lo stato di indigenza, reso evitabile e sanabile dal “generoso impegno di una miriade di organizzazioni religiose e di volontariato, in presenza di non poche mense della carità”, ha perso la carica esimente riconosciuta dall’art. 54 c.p. in caso di delitto di furto e anche di altri delitti, che siano commessi da non abbienti.

Proprio nell’ipotesi di furto con strappo, è stato affermato che la situazione di indigenza non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell’attualità e dell’inevitabilità del pericolo, «atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale» (Cass. Pen. Sez. V, Sentenza n. 3967 del 13.07.2015, Rv. 265888).

La penuria di mezzi economici non esclude in via generale l’antigiuridicità di comportamenti criminosi: in una Repubblica, fondata sul lavoro e sull’umana solidarietà, questa penuria è ovviabile «nella sociale convivenza, sia pure con inevitabili difficoltà ed angustie senza ricorrere al reato» (Cass. Pen. Sez. VI, n. 179 del 30.01.1967, Rv. 103819)

Conforme è sez. IV n. 656 dell’8.3.1966, Rv. 101577, secondo cui ingiustificabile è la lesione dell’ordine pubblico di chi pratichi la mendicità in una società con moderna organizzazione di assistenza dei non abbienti, presuntivamente efficace: «La condizione di ristrettezza economica non può costituire l’esimente dello stato di necessità a favore di chi si sia rifiutato di ricorrere all’assistenza degli enti che la moderna organizzazione sociale ha predisposto per l’aiuto agli indigenti. In tal caso, invero, vengono a mancare gli elementi dell’attualità e della inevitabilità del pericolo grave alla persona».

Il carattere reazionario di questo specifico profilo della giurisprudenza progressista, potrà essere ancora più evidente grazie al “riformismo” maturato nella recente legislazione. Vi è da rilevare, infatti, che il reato di mendicità, ex art. 670 c.p. è stato abrogato con l’art. 18 della legge 205/1999, ma, con l’art. 21 quater, co.1 del d.l. 4.10.2018, n. 113, convertito nella l. 1.12.2018 n. 132, è stato inserito nel codice penale l’art. 669 bis c.p., che punisce il reato di esercizio molesto dell’accattonaggio.

Il dilemma tra dovere punitivo e diritto alla vita si è riproposto ai giudici nel campo del commercio abusivo di prodotti audiovisivi, esercitato prevalentemente da immigrati.

Anche per questi trasgressori – in notoria difficoltà di integrazione nel tessuto lavorativo e nella rete assistenziale – è stato sollevato il ponte dello stato di necessità, lasciandoli esposti alle sanzioni di giustizia, a causa della duplice infrazione: violazione del diritto di autore e rinuncia ai benefici del generoso Stato sociale.

La Suprema Corte ha preso ferma posizione critica e ha vigorosamente cassato l’interpretazione politica delle norme penali, condizionata dai principi costituzionali che garantiscano la pari dignità economica e sociale degli esseri umani. In particolare nel campo commerciale, l’extracomunitario deve accontentarsi di lavori umili e sottopagati, di facile accesso per qualsiasi parvenu.

L’ordinanza della VII sezione n. 26143 del 16 maggio 2006, Rv. 234529 scolpisce il protocollo della incompatibilità tra Welfare State e giurisprudenza umanitaria: «alcune sentenze di giudici di merito si sono, sebbene in epoca non recente, spinte a considerare tutelabile ex art. 54 c.p. il diritto a una esistenza libera e dignitosa, affermando che tale diritto si evincerebbe dall’art. 36 Cost.. Ma tale tesi giuridica, sicuramente funzionale all’assunzione di un ruolo politico di riequilibrio degli assetti sociali, è stata sempre smentita dalla giurisprudenza di questa Corte perché non tiene conto dei requisiti concretamente richiesti dall’art. 54 c.p. per la sussistenza della scriminante in questione».
Ciò perché la moderna organizzazione sociale, venendo incontro con diversi mezzi ed istituti agli indigenti, agli inabili al lavoro e ai bisognosi in genere, elimina per costoro il pericolo di restare privi di quanto occorre per le loro cure e il loro sostentamento (Cass. pen., sez. V^, 17 luglio 1981, Rv.151093; conforme Sez. VI, n.711 del 18/04/1967, Rv.104604).
In altri termini, la scriminante dello stato di necessità ben può essere concessa a chi sta per morire di fame e compie un’azione delittuosa per sopravvivere; mentre non può trovare applicazione in tutti i casi in cui una persona ritenga di potere ovviare al suo stato di indigenza, violando la legge penale.
E’ questa giurisprudenza che si pone in difesa dalla perenne emergenza causata dalla pigrizia e dall’anarchia dei poveri. Di qui, il pericolo di sentenze, che, ispirate da umanitaria equità, vadano fuori dai moderni binari tracciati dal cristianesimo e dal riformismo socialdemocratico nel terreno assistenziale. Di qui il rifiuto di una giurisprudenza. apparentemente moderna, ma sostanzialmente ottocentesca.  Gli autori di queste decisioni credono nel welfare state, credono nello Stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire l’assistenza e il benessere di tutti. Non vedono quindi la documentata realtà delle strade popolate da vagabondi all’addiaccio, che si nutrono di avanzi umilianti; non leggono le statistiche della disoccupazione, non sanno del crescente affollarsi di donne e uomini, italiani e stranieri sulla e oltre la soglia della insanabile e indilazionabile povertà, teorizzata e scandita dai cultori internazionali della globale concentrazione del benessere.

E’ proprio la realistica presa d’atto dell’inesistenza o dell’inefficacia della moderna organizzazione assistenziale la fonte della esimente della ristrettezza alimentare e sanitaria, affermata dal giudice Magnaud e dal suo collegio nel 1898 e ribadita implicitamente dopo oltre un secolo dal collegio della Corte di Cassazione.

Va ribadito lo specifico stato di necessità in cui i giudici penali devono operare in questo tipo di fattispecie a causa degli inadempimenti degli altri poteri dello Stato: non possono razionalmente ignorare la pura finzione, l’onirica visione, l’immaginifica rappresentazione dello Stato sociale italiano, che – secondo la giurisprudenza dominante – soccorre i non abbienti, assiste gli infermi per stenti alimentari e terapeutici.

Questi cittadini togati conoscono i tagli apportati agli investimenti dello Stato e degli enti territoriali, ostativi all’uguaglianza nel benessere, nella salute, nell’istruzione di tutti gli abitanti. Conoscono la precarietà del reddito di componenti di crescenti aree territoriali, sociali, produttive; sono al corrente delle crisi finanziarie ed economiche che hanno irrevocabilmente disperso reddito e dignità dei programmati esclusi dal consolidato benessere.

Di qui il politicamente corretto e giuridicamente razionale riconoscimento dello stato di necessità da parte dei giudici che – pur non ritenendo storicamente matura la declaratoria ufficiale di inesistenza  dell’onirico Stato sociale affermato dalla giurisprudenza dominante –  hanno rifiutato, in nome del popolo italiano, di  togliere la libertà personale e imporre la sofferenza del carcere per sei mesi a chi voleva nutrirsi  di alimenti del valore di quattro euro senza possedere l’equivalente in moneta, non credendo nel mercato del lavoro umile ma onesto, non avendo fede “nella miriade di organizzazioni religiose e di volontariato, nelle  non poche mense della carità”.

 

 

[1] e. leyret, Le sentenze del Presidente Magnaud riunite e commentate, tradotte e annotate dall’avv. r. majetti,  S.Maria Capua Vetere, 1901, 51. La Corte di Amiens, investita dell’impugnazione del Procuratore Generale, confermò l’assoluzione, sia pure riconoscendo il dubbio sulla sussistenza del dolo.

[2] Ivi, 52 s.

[3] f. mantovani, Diritto Penale, Parte Generale, Cedam, 1979, 241.