L’allarme per l’automatico e impietoso taglio della libertà personale dei poveri e degli emarginati – evidenziato dalla critica al buon giudice Magnaud e ai suoi discepoli (v. articolo qui pubblicato) – e la critica alla disumanizzazione di chi opera in materia tanto delicata sono confermati dal grande Eduardo De Filippo.
Nella nota in premessa alla raccolta delle sue commedie [1], l’autore ricorda :
A quattordici anni avevo un amico, nipote di un avvocato napoletano di nome Triola e abitante a Portalba; fu lui a portarmi in Tribunale per la prima volta. Mi viene alla memoria quanto vidi in una mattina d’inverno, in quelle squallide aule della Sezione Penale: tre ragazzi napoletani, smunti, laceri, sudati, sporchi, incatenati tutti e tre insieme con catene e bracciali non so se di acciaio o di ferro, dovevano essere giudicati per dei furtarelli – penso fossero stati scippi – commessi chissà quanto tempo prima. Quello che mi rimase veramente impresso fu questo: il primo ladruncolo fu giudicato e condannato, ma non potè rassegnarsi ad aspettare che fossero giudicati anche gli altri due incatenati con lui.
Naturalmente, tra una sentenza e l’altra, passa del tempo, perché in Tribunale hanno fatto l’abitudine a questi disgraziati, non fanno più pena a nessuno; succede un po’ come a un chirurgo che dopo le prime esperienze di studente si abitua al sangue e taglia… E quindi, il magistrato impartiva ordini, l’usciere parlava forte di cose sue con altre persone; c’era indifferenza, ecco, nei confronti del ragazzo condannato, il quale, a un certo punto, si alzò e disse: <Io me ne voglio andare. Mi avete condannato, fatemi portare via. Basta! Qua non ci voglio restare>. Non gli dettero ascolto, anzi l’obbligarono a sedersi. Improvvisamente nel giovane esplosero nel giovane esplosero violente la rabbia, la ribellione; per sfogarle, si battè le catene e i braccioli sulla fronte, così forte che gli schizzi di sangue macchiarono le pareti e il suo viso divenne una maschera di sangue. Nemmeno allora lo portarono via … Il presidente fece sgombrare l’aula, tutti uscirono, e io pure fui contento di tornare a respirare aria libera. Fu un’esperienza tremenda per me. Credo che quel ragazzo mi abbia dato in seguito l’idea per un mio personaggio, De Pretore Vincenzo.
Come ho detto, l’episodio mi aveva profondamente colpito; tornai diverse volte in tribunale con il mio amico, poi presi ad andarci da solo, e a poco a poco misi insieme una folla di diseredati, di ignoranti, di vittime e di aguzzini, di ladri, prostitute, imbroglioni, di creature eroiche e esseri brutali, di angeli creduti diavoli e diavoli creduti angeli. Ancora oggi essi sono con me, assieme a tanta altra umanità che man mano ha accresciuto la folla iniziale. Quando parenti e amici si meravigliano che io possa restare, così a lungo, solo, appartato e apparentemente inoperoso, non sanno che io continuo a parlare e a ragionare, ascoltando i loro casi, le loro aspirazioni, seguite troppo spesso da delusioni e immancabili proteste.
[1] Eduardo De Filippo, I capolavori di Eduardo, Nota, VIII, Einaudi ,1973.